
Gli spazi di ascolto – centri clinici sono un network di medici, psichiatri, psicologi e psicoterapeuti e psicoanalisti di Psicomed che orientano e promuovono le attività di ricerca e fungono da raccordo rispetto al lavoro clinico.
L’iniziativa della creazione di “Spazio ascolto Centri Clinici Psicomed” scaturisce da un’esperienza di lavoro che ne è stata il momento di fondazione: la lettura del testo di Freud “Il disagio della civiltà”.
La sofferenza personale e collettiva è l’indice del Disagio della civiltà ed è a questa sofferenza che si chiede risposta in qualche modo.
Il materiale qui annesso costituisce la documentazione di questo intenso e fecondo tempo di elaborazione che ha preceduto e preparato, prepara e preparerà i componenti di questa comunità di lavoro. Tale materiale è la sintesi di un contenuto e di un metodo.
Uno sguardo panoramico
I Centri Clinici che confluiscono in questa rete sono animati da professionisti che gravitano intorno all’Istituto Psicomed.
Si tratta essenzialmente di un luogo di lavoro: più esplicitamente, prima ancora che un Istituto riconosciuto dallo Stato italiano per formare e diplomare psicoterapeuti, Psicomed è un contesto nel quale si insegna, si studia e si ricerca. Oggetto: il mentale, lo psichico o… più in generale l’uomo.
Prendiamo spunto per comodità di argomentazione, dall’attualità. La Pandemia ha fatto scricchiolare i cardini del mondo, di “questo” mondo perlomeno. Parafrasando una ben nota battuta, potremmo dire che il Covid-19 non avrà certo segnato la fine “del” mondo ma, innegabilmente, la fine di “un” mondo.
Tutti i versanti della nostra civiltà ne sono stati intaccati: l’ampia letteratura che si è generata a valle lo testimonia abbondantemente, per non parlare delle risonanze che l’evento ha avuto nei socials, che in qualche modo ne sono stati parte integrante o, per dir meglio, il contraltare o il contro-canto, se si preferisce.
Una delle dimensioni più direttamente colpite sembra essere stata quella della salute mentale, soprattutto tra gli adolescenti. Non siamo più come prima. Lo si ripete continuamente e perfino una serie televisiva risulta essere stata ispirata da questa tematica. Saremmo tutti più malati, più sofferenti. Più deboli.
Difficile però è stabilire “di che cosa” saremmo più malati, più sofferenti. Aumenta sì la domanda cosiddetta di “salute mentale”, ma non è poi così semplice spiegare da che cosa venga ad originarsi questa aumentata domanda.
Ansia, depressione, panico: sembrano definizioni generiche che non ci soddisfano nello sforzo di circoscrivere e designare autenticamente il malessere che è stato scatenato.
Ancora più arduo si rivela il tentativo di spiegare e far comprendere come mai un siffatto evento epidemico, sicuramente gigantesco e catastrofico, abbia potuto rimbalzare sull’orizzonte della psiche umana, producendo un impatto così marcato, capace di destabilizzare e sovvertire l’equilibrio psichico, di per sé non così solido, degli esseri umani. Come mai dunque? Dopotutto, non risulta ad esempio che l’epidemia di influenza spagnola del 1918 abbia comportato questa conseguenza, in modo perlomeno così flagrante.
Ma torniamo al punto di partenza. Ci sarebbero molte più persone che non stanno bene, che soffrono. Ma di che cosa?
L’expertise ritenuta competente a rispondere a questa domanda è costituita da coloro che operano nel campo cosiddetto della Psichiatria, campo inquadrato come branca specialistica della Medicina.
La Psichiatria, così come è oggi praticata nel pieno della sua legittimazione, ha un punto di riferimento essenziale: il manuale detto DSM, giunto attualmente alla sua V edizione.
Il DSM, nomenclatore universale per la classificazione e la codificazione delle patologie psichiatriche, è l’espressione di un’impresa di riconfigurazione nosografica della Psichiatria avviata all’indomani della Seconda Guerra Mondiale e in un contesto culturale, quello anglo-americano, che notoriamente, allora come ora, si imponeva in diversi ambiti con le sue aspirazioni monopolistiche ed egemonizzanti.
Nei confronti di questa impresa noi siamo tra coloro che avanzano, non certo rifiuti categorici, ma sicuramente critiche e riserve.
Ci limitiamo a notare come dichiarazioni di fallimento di questa impresa provengono sorprendentemente dall’interno stesso dell’equipe investita a realizzare, ormai da decenni, tale ambizioso progetto di ristrutturazione.
Non voglio addentrarmi nel merito della critica verso il DSM e verso gli effetti di polverizzazione di un corpus dottrinale prezioso e di una clinica raffinatissima – quali possiamo considerare il sapere psichiatrico europeo, elaborato e sistematizzato fino a quel momento da generazioni di psichiatri sapienti e geniali. Mi limito a sottolineare quanto da molti avvertito, ovvero la banalità stucchevole, la ripetitività dozzinale, insomma una certa delusione circa la risposta ai quesiti posti in partenza: Di che cosa soffriamo dopo la pandemia? E perché? Le risposte ricevute da quel luogo, le società degli psichiatri, presunto detenere il segreto del funzionamento della psiche umana, lasciano perplessi e alquanto insoddisfatti.
In modo marginale indichiamo quello che è forse il punto più manifesto dell’insufficienza di questo sistema di nomenclatura, e cioè la proliferazione incontrollata di sempre nuove categorie nosografiche e la straripante estensione del regno della psicopatologia su territori dell’esperienza umana, fino a quel momento preservati, affrancati. Sul terreno più specifico della vita sessuale umana, dopo la grande stagione ottocentesca delle perversioni, dopo l’intervallo dell’ottimizzazione comportamentista delle performances sessuali alla Masters e Johnson, il DSM accompagna oggi le aspirazioni che si coagulano intorno alla nebulosa indistinta della liquidità delle posizioni sessuali degli individui, fino addirittura ai bambini.
Per quanto riguarda questo primo campo di indagine, la scommessa per Psicomed è quella di restituire all’arida cartografia del DSM la sua anima teorica e clinica, ripensando questo nomenclatore universale alla luce della letteratura specialistica che va da Kraepelin a Clérambeault, per limitarci a due bastioni tutt’altro che delimitanti.
Congiuntamente allo studio della letteratura psichiatrica di Ottocento e Novecento, è da ripensare dalle sue fondamenta il processo di deistituzionalizzazione inaugurato da Franco Basaglia per riportarlo alle basi fondamentali della struttura e sprigionarne così il potenziale effettivamente operativo e liberatorio.
D’altra parte, per ritornare alla più martellante attualità, il disagio della civiltà – che è stato oggetto di uno studio preparatorio della comunità raccolta intorno a questo progetto – nella forma specifica che ha assunto nella congiuntura di questo nostro tempo, con gli effetti di moltiplicazione e di eco innescati dall’immagine virtuale digitalizzata, fruibile in ogni angolo e in tempo reale, si impone ogni giorno in maniera tangibile e drammatica, anche senza necessariamente intercettare quei livelli di singolarità patologica, che sfociano nella efferatezza di crimini o di linee criminali, di cui la cronaca ci porta a conoscenza in un misto di sdegno, orrore angoscia e… ineffabile fascinazione (vedasi la curiosità morbosa con cui programmi televisivi e canali YouTube indugiano per ore nell’esplorazione delle ragioni recondite di questo o quel tale delitto).
Intanto che, avanzando l’impresa del DSM, si compiva questa progressiva erosione dell’edificio teorico-clinico ereditato dalla grande esperienza della Psichiatria europea – ivi compresi quelli che erano stati gli scambi più fecondi e reciproci con la cultura filosofica, artistica e letteraria europea(Positivismo, Fenomenologia, Esistenzialismo ecc…) – un altro processo avanzava, distinguibile in due direzioni separate, anche se a tratti intersecate.
Da un lato l’autonomizzazione della Psichiatria dalla Neurologia -la Neurologia come branca specialistica della patologia del cervello, del midollo spinale e dei nervi periferici – per un preteso definitivo affrancamento della patologia psichiatrica dal substrato organico; dall’altro l’introduzione, del tutto casuale e pragmatica, degli psicofarmaci nella terapeutica, modificando decorso e prognosi, ha ciclicamente rilanciato la ricerca, se non di una anatomia patologica, certamente di una biochimica patologica. Ma, possiamo dirlo a distanza di anni, i follow-up non hanno portato a risultati specificatamente significativi nel loro complesso, ancorché i farmaci si siano rivelati in diversi casi indubbiamente di grande ausilio. Rimane il fatto che in molti casi, approssimativamente negli ultimi quarant’anni, l’emergenza contingente di una sofferenza e l’incontro con la psichiatria del DSM possa essersi tradotto per molti nell’instaurazione di una dipendenza da psicofarmaci, tristemente in linea con la più vasta dipendenza da alcolici e sostanze chimiche, che caratterizza drammaticamente il nostro tempo, come un beffardo risvolto del progresso dell’industria farmaceutica, capace di produrre molecole sempre più raffinate per la cura ed il benessere dell’individuo.
Mentre erano in corso questi due processi fondamentali, l’uno riguardante l’aggiornamento della classificazione nosografica e l’altro che riproponeva il plurisecolare problema cartesiano del rapporto mente-corpo, vedeva la luce ad opera di Wundt la Psicologia scientifica moderna, alla fine dell’Ottocento, sotto la spinta di una potente suggestione tardo-positivistica. E, nello stesso torno di tempo, nascevano l’Antropologia e la Sociologia.
Quello della Psicologia moderna, con le sue varie tappe e stagioni, costituisce quindi un terzo filone di questo popoloso panorama e non va confuso con quello che sarebbe il quarto filone, ovvero la Psicoterapia. La Psicoterapia, ovvero la pratica mirante a curare lo psichico con i mezzi più disparati, rimonta ad un tempo di gran lunga più remoto di quello che vede la nascita della Psicologia scientifica moderna. La incrocia sicuramente fin dal suo sorgere, ma disegna una traiettoria a sé stante, indipendente dalla parabola della Psicologia e della Psichiatria, benché spesso interagenti fra di loro.
E come già la Psichiatria prendeva le sue distanze dalla Neurologia nell’ambito delle specialità della Medicina, così la Psicologia prendeva le sue distanze da un insieme variegato di saperi filosofici di cui fino ad allora essa era stata una componente. Nasceva così la Facoltà di Psicologia nell’ambito dell’Università.
Oggi la Psicoterapia in Italia è regolata da una legge dello Stato, la cosiddetta legge Ossicini che, se ha forse tutelato da improvvisazioni e da turlupinazioni a danno dei malati, non ha però preservato, oltre che da un certo impoverimento teorico, dalla frammentazione e dalla burocrazia e non sempre riesce ad essere garante della qualità delle prestazioni.
La prospettiva da cui studiare oggi l’approccio alla psicoterapia è quella influenzata dalla biopolitica che, al seguito di numerosi intellettuali che vi hanno riflettuto sopra, snatura profondamente la posizione del richiedente e del dispensatore della cura.
In questo scenario fervente di incalzanti cambiamenti, l’avvenimento senz’altro più importante, che quindi si deve distinguere da quelli finora accennati, è la nascita dell’inconscio, per far eco ad un famoso libro di Ellenberger.
L’inconscio freudiano è qualcosa di totalmente a se stante, che certamente si incontra e si scontra con la Psichiatria, la Neurologia, la Psicologia, la Psicoterapia, ma che più generalmente influenzerà tutto un secolo, il ‘900, fino ai giorni nostri. La letteratura e l’arte ne sono i principali vettori. La psicoanalisi cambia per sempre il volto dell’uomo e del mondo: Io è un altro e il cuore del nostro essere ci sfugge fatalmente.
A differenza della mutevolezza incessante dei sapere antecedenti, la psicoanalisi – che pure chiaramente presenta una sua storia di mutamenti teorici, cambiamenti della pratica e rovesciamenti istituzionali – mostra una certa staticità, una certa resistenza ad essere riassorbita nel vortice delle trasformazioni. L’inconscio è senza tempo e resiste alla velocità con cui si pretenderebbe di metabolizzare ogni teoria, mostrandone il lato transeunte e relativo. L’inconscio è uno zoccolo duro: nulla si arresta, e tuttavia Freud e Lacan non possono più facilmente essere oltrepassati, come un autore qualunque.
Negli anni Settanta del Novecento avanza il Cognitivismo. Il programma cognitivista, con le sue variegate articolazioni e ramificazioni, è in larga misura una reazione, o un tentativo di reazione, all’inconscio freudiano. Fino a che punto l’obiettivo possa dirsi essere stato raggiunto forse non spetta a noi. Ci limitiamo a raccogliere qualche dichiarazione non troppo entusiastica che si leva anche qui dal suo interno.
Per contro non è eccessivo affermare che la psicoanalisi, soprattutto quella di Lacan, non ha mai cessato di mostrare vitalità e capacità di presa, suscitando amori e odi ugualmente ripartiti.
Indubbiamente la psicoanalisi, oltre a non potersi esimere dall’assumere una posizione epistemologica rigorosa nei confronti della Scienza moderna, si è trovata ad inscriversi in un momento storico di cerniera, quello individuato molto puntualmente dalla Sociologia e dalla Letteratura sotto la cifra del cosiddetto “tramonto dell’era del padre”. Intorno a questa svolta epocale la psicoanalisi deve riconfigurazione ed esibire credenziali consone per le nuove prospettive che si aprono alla civiltà, tali da poter orientare il soggetto in un contesto mutato, smarcandosi dalla tentazione di fare da puntello a nostalgie passatiste di restaurazione.
Ma il Novecento è anche il secolo che vede l’ascesa e l’affermarsi delle Neuroscienze, con tutto il prestigio derivante dal loro metodo e dal loro contributo. Significativi, ai fini della nostra scansione, le due seguenti tappe, che rappresentano due vettori orientati in senso contrapposto:
- la Neuropsicoanalisi, ovvero il tentativo di connettere il freudismo, resistente malgrado gli anni passati, a delle basi neurobiologiche allora ancora in nuce;
- l’attenzione delle Neuroscienze verso la psicoanalisi, solco in cui pienamente si situa Psicomed, come anche attestato dall’imponente iniziativa Neurowebinars.
Neurowebinars è una iniziativa didattica ed editoriale in rete, nata durante la Pandemia e cresciuta in pochi anni fino a comprendere attualmente circa 5000 iscritti tra psicologi, psicoterapeuti, psicoanalisti, specializzandi e specialisti di neurologia, psichiatria, neuropsichiatria infantile, dottorandi in neuroscienze, ricercatori, clinici, e accademici di tutto il territorio nazionale. Da anni e per due volte alla settimana, illustri ricercatori e clinici vengono selezionati e invitati da un prestigioso comitato editoriale a presentare nella forma del webinar un seminario aperto a tutti gli iscritti alla mailing list dei Neurowebinars.
Oltre ai webinar formativi, Neurowebinars organizza presentazioni di libri e journal club su pubblicazioni particolarmente significative, oltre che interviste a prestigiosi autori nazionali e internazionali di diversi ambiti della cultura scientifica e umanistica. Lo scopo ultimo dei Neurowebinars è favorire la diffusione della conoscenza nelle diverse branche delle neuroscienze cliniche e sperimentali e promuovere il dialogo, ma anche il confronto schietto, tra la scienza e gli altri campi del sapere, tra i quali, naturalmente, la psicoanalisi. Il successo di tale iniziativa testimonia l’interesse a una inedita apertura verso altre discipline di studiosi con diversa formazione, che non trovano nei rispettivi ambiti di lavoro le risposte definitive ai quesiti clinici e teorici che li attraversano.
A tale riguardo, riteniamo fondamentale rinunciare al sogno della neuro psicoanalisi (e che fu in qualche misura anche di Freud) di trascrivere nel linguaggio della biologia e della neurofisiologia la scoperta dell’inconscio e del suo funzionamento e, al contrario, riteniamo importante da una parte arricchire la teoria psicoanalitica con le scoperte più avanzate delle neuroscienze, ma dall’altra preservarne la specificità, pur senza rinunciare a inserirela pratica psicoanaliticanei luoghi della clinica neurologica, come è l’IRCCS Neuromed.
Può sembrare paradossale, ma è proprio valorizzando ciò che non si lascia assorbire nel discorso scientifico che la psicoanalisi ha aumentato in anni recenti la sua attrattività per neurologi e psichiatri che tutti i giorni si confrontano con l’inadeguatezza delle spiegazioni basate sulla neurobiologia e sulla neuroanatomia a rendere conto dei fenomeni clinici con cui si confrontano ogni giorno. Basti per tutti citare il caso dei cosiddetti disturbi neurologici funzionali (DNF), che costituiscono la terza causa più frequente di consulto neurologico e per i quali la neurologia classica non ha alcuna spiegazione.
Oggi l’attualità offre una galassia di pratiche per la cura del malessere, dell’ “anima” e del “corpo”. L’indagine delle costellazioni familiari o la medicina narrativa, per non citarne che due prese a campione, altro non sono se non riesumazioni della pratica analitica sotto mentite spoglie, secondo modalità più approssimative e selvagge. Ho detto galassia non a caso. Si tratta di un coacervo molto eterogeneo, ove non tutto ciò che vi si trova può essere raccomandabile, a conferma che – come diceva Goya – il sonno della ragione genera mostri.
Il disagio della civilità di Sigmund Freud
Contributi dei gruppi di lavoro
Capitolo 1
di Cascone Eleonora, Ciancaglini Vincenzo, Santuccio Gemma, Battiato Laura, Di Natale Lia, Passanisi Chiara, Marino Chiara , Giunta Alice, Lampo Letizia, Michele Bianchi
RELIGIOSITA’ E SOGGETTIVITA’: sul senso del sentimento “oceanico”, sentimenti ed illusione.
La comprensione (o l’incomprensione) della condizione del mondo umano e della psiche del singolo aprono al testo il complesso campo dei valori, degli ideali, dei desideri. Freud lo anticipa già nell’introduzione al suo discorso e lo sottolinea nel commentare la critica ricevuta al testo “l’avvenire di illusione” quando – narrandone l’intervento – il critico stesso si sofferma sul “cosa consisterebbe la fonte autentica della religiosità”. Per egli, si tratterebbe di un particolare sentimento che gli apparterrebbe e che condividerebbe con milioni di uomini. Chiama Freud tale sentimento “senso della eternità”, un senso di illimitatezza, di sconfinato, di “oceanico”. Si tratterebbe, dunque, di un fatto “soggettivo” che si porrebbe alla base di quella “energia religiosa” incanalata da ciò che diviene chiesa e religione ma che – a parere del critico – “potrebbe farci definire religiosi pur rifiutando ogni fede ed “illusione”.
Nelle righe a seguire – al margine del commento critico – Freud ribatte come “non riesco a scoprire in me questo sentimento oceanico”. “Non è facile parlare scientificamente dei sentimenti”, continua.
Emergono dalle prime pagine dello scritto parole che ne definiscono il tragitto: soggettività, illusione, sentimento.
Per entrarvi, Freud sceglie la strada che “non resta da far altro che attenersi al contenuto rappresentativo che più immediatamente risulta associato al sentimento”.
“FUORI DA QUESTO MONDO NON POSSIAMO CADERE”: dal “oceanico” al senso di noi stessi.
Come il critico, così un drammaturgo offrì al suo eroe la consolazione di fronte alla prospettiva della morte volontaria con la poetica “Fuori da questo mondo non possiamo cadere”, trattandolo come un “sentimento di un legame indissolubile”, di stretta appartenenza al mondo esterno.
Per Freud, questa affermazione non definisce la natura primaria di siffatto “sentimento oceanico”. Difatti, “questa affermazione ha un carattere da intuizione intellettuale che si accompagna anche ad altri atti di pensiero”.
Dunque: “l’idea che l’uomo debba avere conoscenza della propria connessione al mondo circostante mediante un sentimento diretto ed immediato, orientato fin dall’inizio in questa direzione appare talmente strana e si accorda talmente male con la struttura della nostra psicologia da legittimare il tentativo di una spiegazione psicoanalitica, ossia genetica, di tale sentimento”.
- Mondo interno e mondo esterno. Relazioni.
Partiamo da qui.
Esiste un “senso di noi stessi”. E nulla è più “sicuro” del senso del nostro proprio Io! Il mio “Io” appare a me stesso unitario, autonomo, ben contrapposto ad ogni altra cosa.
Che questo “Io” abbia – in realtà – una propria continuazione in una entità psichica inconscia – l’Es, appunto – lo si apprende proprio dalla lettura psicoanalitica. Si tratta di una continuazione, diremo, rivolta verso l’interno mentre verso l’esterno l’Io sembra mantenere una sorta di demarcazione chiara e netta.
Solo in “stati eccezionali” le cose sembrano andare diversamente. Nell’innamoramento, ad esempio.
Al confine dell’Innamoramento, l’Io e l’oggetto si dissolvono. Contro ogni evidenza dettata dai sensi, l’innamorato afferma che “io e tu siamo una cosa sola” ed egli è pronto a comportarsi “come se fosse vero”.
Ed, oltre all’innamoramento, la patologia ci fa conoscere un gran numero di stati in cui la delimitazione dell’Io nei confronti del mondo esterno fa difetto…
- basti pensare alle situazioni in cui parti del proprio corpo o delle proprie emozioni o, ancora, dei propri pensieri appaiano “estranei” o, comunque, non appartenenti al proprio Io;
- oppure ai casi in cui al mondo esterno vengono attribuiti aspetti che, in realtà, hanno avuto origine all’interno dei confini dell’Io.
IL SENSO DELL’IO E’ SOGGETTO A DISTURBI e i confini non sono stabili.
Tale “Senso dell’Io” presente nella condizione adulta può essere stati tale e quale sin dal suo inizio? E qui, per aprire tali riflessioni e rispondere negativamente a tale affermazione, per Freud è ben semplice fare riferimento allo sviluppo e alle conoscenze assunte su tali percorsi…
L’evoluzione del “senso dell’Io” partendo dalle esperienze del lattante consente a Freud di ribattere sulla incapacità dello stesso di distinguere il proprio Io dal “mondo esterno”. Tale apprendimento accadrà gradualmente in risposta a diverse sollecitazioni.
Il lattante distinguerà
- Che ci sono fonti di eccitamento che trasmettono sensazioni in qualsiasi momento (provenienti dai propri organi corporei);
- Che ce ne sono altre che gli si sottraggono e gli vengono ripresentate come risultato, ad esempio, del suo strillare (il seno materno).
Ecco come nel lattante si definisce la contrapposizione di due “forze”: un oggetto “fuori” ed un oggetto “dentro”. Quest’ultimo definirà il suo “Io”.
Un incentivo al distacco dell’Io dalla “massa informe di sensazioni e dal riconoscimento di un “fuori” – di un mondo esterno al suo Io – è fornito dalle abbondanti sensazioni di dolore e dispiacere che il “principio di piacere” ordina di neutralizzare ed evitare.
Da qui, la tendenza naturale ad allontanare dall’Io tutto ciò che può divenire fonte di dispiacere – respingendolo all’esterno – per formare un “puro Io-piacere” al quale contrapporre il “fuori”.
Le frontiere dell’IO-piacere. Le rettifiche dell’esperienza. Il “Principio di Realtà”.
Dunque, due sono i territori che emergono:
- ciò che è interno e che appartiene all’Io;
- ciò che è esterno e scaturisce da esso.
Freud da a quest’ultimo il nome di “Principio di realtà”. Acquista, esso, la parte dominante del processo di crescita del bambino in quanto è in questa differenziazione che si cela l’intento di difendersi dalle sensazioni spiacevoli già sperimentate e da quelle incombenti.
Ora… è risaputo che, proprio perché al fine di difendersi da questi eccitamenti spiacevoli, l’Io non applica elementi diversi da quelli che adopera contro il dispiacere che proviene dall’esterno, questo diviene l’elemento scatenante alcuni rilevanti disturbi.
In origine l’Io include tutto, in seguito separa da sé il “mondo esterno”.
Il nostro “senso dell’Io” è, dunque, “un avvizzito residuo di un sentimento assai più inclusivo, onnicomprensivo, che corrispondeva ad una connessione quanto mai intima dell’io dell’ambiente”.
Tale “senso primario dell’Io si sarebbe conservato nella vita psichica di molte persone, collocandosi accanto al più ben delimitato senso dell’Io della maturità rappresentandosi come illimitatezza e “comunione con il tutto”. Il sentimento oceanico in questione?
Che sopravviva qualcosa di originario accanto a ciò che fa scaturire la maturità?
Nell’ambito della psiche, la conservazione del “vecchio” accanto al “nuovo” è molto frequente ed è generalmente – dice Freud – conseguenza di una “scissione dello sviluppo” da una parte il moto pulsionale che si mantiene inalterato, dall’altra il suo ulteriore – previsto – sviluppo. Dunque, nella vita psichica, nulla può perire, insomma, una volta formatasi; tutto si conserva in qualche modo, per cui una situazione o un evento di regressione può restituire, nel tempo, “qualunque cosa si fosse dimenticata”.
E qui, successivamente, Freud prende come riferimento esempi legati alla storia – di Roma, della città eterna nello specifico – e allo sviluppo animale.
Andiamo per gradi.
I “RESTI DELLA STORIA” e i visitatori attuali
Gli storici riferiscono come Roma si porti “dentro” una serie di “Roma passate”: c’è la Roma quadrata (l’insediamento cintato sul Palatino), c’è la Roma “del Septimontium”, la Roma della federazione dei diversi colli, c’è la Roma del periodo repubblicano, e poi quella del primo periodo Imperiale, quella che l’Imperatore Aureliano cinse di mura.
Cosa potrebbe ritrovare di quelle Roma il visitatore attuale?
Potrebbe ritrovare immutate le mura aureliane. Tratti ancora delle mura serviane. Potrebbe tracciare su carta il perimetro della Roma quadrata. Certo, degli edifici di quel tempo non troverà più nulla, o solo scarsi resti. Ma questo è l’unico modo per notare i “resti” del passato presenti nell’attualità…
Trasportiamo Roma in un’entità psichica, un’entità in cui nulla del passato è scomparso e in cui accanto alle più recenti fasi di sviluppo continuano a sussistere tutte le precedenti. Dice Freud a tal proposito “L’ipotesi della conservazione di tutto il passato vale per la vita psichica a condizione che l’organo della psiche sia rimasto intatto, che il suo tessuto non sia stato danneggiato da un trauma o un’infiammazione”.
Nella psiche è possibile la conservazione di tutti gli stadi anteriori accanto alla strutturazione finale: “nella vita psichica il passato può essere conservato e non necessariamente distrutto, ma è pur possibile che qualcosa di antico venga cancellato o assorbito”. Certamente, sottolinea Freud, nella vita psichica tale conservazione è regola più che eccezione.
SENTIMENTO OCEANICO o IMPOTENZA INFANTILE e NOSTALGIA DEL PADRE?
Ora, se possiamo riconoscere che un “sentimento oceanico esista in molte persone e possiamo ricondurlo ad una prima fase della formazione del sentimento dell’Io, occorre chiedersi ancora, secondo Freud, per quale motivo si debba ricondurre a questo sentimento la fonte indiscutibile dei bisogni religiosi. Infatti, scrive Freud: “Un sentimento può essere fonte di energia solo se è l’espressione di un forte bisogno”. Parlando di un bisogno religioso in Freud è ben più plausibile l’origine legata alla impotenza infantile e alla nostalgia del padre “tanto più che questo sentimento non si limita a perpetuarsi oltre la vita del bambino ma si alimenta di continua dell’angoscia di fronte allo strapotere del fato”.
Dunque, tale analisi riduce notevolmente la parte spettante al “sentimento oceanico”: “L’origine dell’atteggiamento religioso può essere individuata nei chiari contorni risalendo al sentimento d’impotenza dell’infanzia”.
Il sentimento oceanico può essere entrato in un secondo tempo in relazione con la religione ma, dice Freud, “l’essere uno con il tutto” appare più un tentativo di “consolazione religiosa”. E la consolazione religiosa può assumere le diverse e disparate forme di “queste grandezza a stento afferrabili”.
“GIOISCA.
CHI QUI RESPIRA NELLA LUCE ROSATA”
È il “Tuffatore” di Schiller a chiudere – o forse a tenerlo in tensione – il discorso freudiano. Cosa riempie lo spazio vuoto di un linguaggio mancante, di un sapere insaziabile che “ha spinto a compiere gli esperimenti più strazianti”? Per Freud, il punto dal quale poter muovere ulteriori passi parte da un fondamento “fisiologico di molte cose sagge che dice la mistica”: in essi non mancano certamente le modificazioni oscure della vita psichica.
Da qui, il filo si tende per aprire dall’oceanico ad altrove.
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Capitolo I (secondo gruppo) di
Michele Bianchi, Pepe Stefano, D’Onofrio Vincenzo, Sartori Graser Fausto, Signorini Sabrina, Paganin Walter, Paternoster Francesca, Santoro Anna
Illusione dei valori
Freud nota come gli uomini spesso adottino falsi metri di giudizio, aspirando a potere, successo e ricchezza, ma trascurando i veri valori della vita. Questo comportamento riflette una diversità nei desideri e pensieri umani. ” È impossibile sfuggire all‛impressione che gli uomini, di solito, adottino falsi metri di giudizio – che aspirino al potere, al successo, alla ricchezza e ammirino queste cose negli altri, ma sottovalutino i veri valori della vita.”
Freud: “Vi sono uomini cui non viene negata l’ammirazione…” Dalì: cosa c’è di più ammirevole della schiena dritta del dittatore? Non serve fare il bene o il male, per essere o non essere. Il padre è il nemico che gli sottrae la madre, ma è oggetto di ammirazione – identificazione. L’oggetto di ammirazione più grande per il bambino è il padre. Identificazione significa Super-io, è la stessa cosa.
Freud impiega una struttura oppositiva, evitando un’affermazione diretta. Quali sono i veri valori della vita, ovvero ciò che le conferisce un senso autentico? Paradossalmente, la risposta è la decomposizione, i vermi, il dissolvimento stesso della materia. Ma è un concetto difficile da accettare.
Se un bambino pone una domanda esistenziale – ad esempio: “Mamma, ma noi siamo vivi o morti?” – e il genitore risponde con un rinvio del tipo “Ne parliamo dopo”, è probabile che il bambino non insista ulteriormente. Tuttavia, se la risposta è immediata e rassicurante – “Siamo vivi, certo.” – si inserisce nella logica del senso, che tende a consolidare significati rassicuranti e convenzionali, senza aprire lo spazio alla riflessione più profonda.
Freud osserva che queste aspirazioni sono spesso ammirate negli altri. Il concetto di identificazione con figure di potere, come il padre per il bambino, è un esempio di come i falsi valori possano influenzare la psiche umana, creando un Super-io basato su ammirazione e identificazione.
Una considerazione sulla clinica dell’ascolto, invece, propone di non connettere i segni come fa la clinica del deficit, ma di lasciare che sia l’inconscio a farlo, evitando giudizi basati su falsi metri.
Gruppo Bianchi: “La clinica dell’ascolto, in contrapposizione alla clinica del deficit (che cerca di connettere segni e sintomi per creare una diagnosi), suggerisce di non connettere forzatamente i segni. Invece, propone di lasciare che sia l’inconscio a fare queste connessioni. Questo approccio evita giudizi basati su falsi metri di valutazione, permettendo una comprensione più autentica e profonda dei desideri e dei pensieri umani.
La clinica dell’ascolto si concentra sul livello micro delle esperienze individuali.
Le informazioni raccolte a livello micro possono essere utilizzate per fare inferenze a livello macro, comprendendo come le esperienze individuali riflettano le tendenze e le strutture sociali più ampie.”.
Sentimento oceanico
Freud discute il concetto di ‘sentimento oceanico’, un senso di illimitatezza e unione con l’universo, che alcuni interpretano come l’origine del sentimento religioso. Tuttavia, Freud rifiuta questa idea di sentimento oceanico e ne propone una spiegazione psicoanalitica. “Questo, mi fa sapere, consisterebbe in un particolare sentimento, di cui lui non è mai sprovvisto, che g li è confermato da molti altri e che suppone essere presente in milioni di uomini. È insomma un sentimento che vorrebbe chiamare senso di ‘ eternità’ , un senso di illimitato, di sconfinato, di ‘ oceanico’, per così dire.” L’inconscio, paragonato a una macchina ermeneutica volontaria, connette i segni in modo metonimico, creando un senso di connessione con il tutto. Questo sentimento può essere interpretato come una regressione a stati primordiali della vita psichica, evocabili attraverso tecniche come lo Yoga o altre pratiche meditative.
“L’idea che l’uomo debba avere conoscenza della propria connessione con il mondo esterno attraverso un sentimento immediato e fin dall’inizio orientato in quella direzione, appare così bizzarra e si accorda così male con la struttura della nostra psicologia da legittimare il tentativo di una spiegazione psicoanalitica, ossia genetica, di tale sentimento.”
Sviluppo del senso dell’Io
Il senso dell’Io si sviluppa attraverso la differenziazione del sé dal mondo esterno. Freud descrive come il neonato inizialmente non distingue tra sé e l’ambiente, ma attraverso esperienze di piacere e dolore, impara a identificare un ‘oggetto’ esterno. Questa separazione è il primo passo verso il consolidamento del principio di realtà. “Il neonato non distingue ancora il proprio Io dal mondo esterno come fonte delle sensazioni che affluiscono in lui. Apprende a farlo gradualmente, in risposta ai diversi stimoli.” Gruppo Bianchi: “La clinica dell’ ascolto mette in evidenza l’ importanza di ascoltare l’ inconscio senza connettere forzatamente i segni, permettendo all’ Io di svilupparsi naturalmente senza l’ interferenza di interpretazioni consce e forzate.”.
Principio del piacere e principio di realtà
Il principio del piacere, che cerca di evitare il dolore, è bilanciato dal principio di realtà, che riconosce e accetta la necessità di interagire e mediare con il mondo esterno per ottenere piacere. Questo equilibrio è essenziale per lo sviluppo sano dell’Io. ” Le numerose, variegate e inevitabili sensazioni di dolore e dispiacere che il principio di piacere, nel suo esercizio di dominio illimitato, impone di neutralizzare ed evitare.”
Il dualismo tra godimento e piacere è centrale in questa dinamica. L’inconscio connette i segni e determina il funzionamento umano, come una macchina che elabora le esperienze per massimizzare il piacere e minimizzare il dolore.
Disturbi del senso dell’Io
Freud osserva che in alcuni stati patologici, il confine tra l’Io e il mondo esterno può diventare incerto, causando percezioni errate di parti del proprio corpo odi pensieri e sentimenti. In questa visione freudiano l’Io appare instabile. ” La patologia ci mostra un gran numero di stati in cui la delimitazione dell‛Io nei confronti del mondo esterno diventa incerta o in cui i confini sono effettivamente tracciati in modo scorretto; ci sono casi in cui parti del proprio corpo, perfino porzioni della propria vita psichica, percezioni, pensieri, sentimenti, appaiono come estranei e non appartenenti all‛Io.”
Gruppo Gruppo Bianchi: La distinzione tra inconscio isterico e reale emerge nell’ arresto dei sintomi. La clinica dell’ascolto suggerisce che l’arresto della macchina inconscia si manifesta nei sintomi, e che i disturbi del senso dell’Io possono essere interpretati come il risultato di una disfunzione in questo processo ermeneutico.
Conservazione del passato psichico
Freud ipotizza che nella vita psichica viga una sorta di “principio di conservazione” e che tutte le esperienze passate siano conservate in una qualche forma, così come le strutture antiche in una città come Roma. ” Dal momento in cui abbiamosuperatol‛errore di supporre che il dimenticare cui siamo abituati equivalga alla distruzione della traccia mnemonica, e quindi a un atto di annichilimento, propendiamo per l‛ipotesi opposta, ossia che − una volta formatosi −nulla puòperire nella vita psichica, che tutto in qualche modo si conserva e che in circostanze opportune, attraverso ad esempio una regressione che si spinga abbastanza lontano, può nuovamente tornare alla luce.” Gruppo Gruppo Bianchi: La scrittura è vista come modalità del sintomo, permettendo la conservazione e la rielaborazione delle esperienze passate. Il mondo del senso è il mondo del principio di piacere, governato dalla macchina che crea senso, l’inconscio.
Origine dei bisogni religiosi
Freud ritiene che i bisogni religiosi derivano dall’impotenza infantile e dalla nostalgia per la figura paterna. Critica l’idea che il sentimento oceanico possa essere la fonte principale di questi bisogni, vedendolo piuttosto come una forma di consolazione religiosa. “ Quanto ai bisogni religiosi, la derivazione dall‛impotenza infantile e dalla nostalgia del padre da questa suscitata mi sembra incontrovertibile, tanto più che questo sentimento non si limita a perpetuarsi oltre la vita del bambino, ma si alimenta di continuo dell‛angoscia di fronte allo strapotere del fato.” L’inconscio, paragonato a una donna isterica, rappresenta una macchina volontaria che crea senso attraverso le connessioni dei segni. Il bisogno di protezione paterna e la ricerca di un senso di sicurezza sono alla base dei bisogni religiosi, mentre il sentimento oceanico può essere visto come una regressione a uno stato di narcisismo illimitato.
In fase di revisione.
Capitolo 3
Cultura e Civiltà: Una possibilità ad essere “felici” una possibilità di “equilibrio”
di Sandra Lombardo, Benedetta Uda, Davide D’Alessandro, Caterina Santagati.
Passando dall’inadeguatezza delle istituzioni ai progressi nelle scienze con il loro clima nostalgico, ci siamo cimentati a rintracciare all’interno di questo capitolo, del Disagio della Civiltà, come la Bellezza, la pulizia e l’ordine possano mettere bene in evidenza un possibile spunto di civiltà dalle relazioni sociali alla libertà individuale.
Sandra Lombardo inizia il lavoro domandandosi come passando dall’inadeguatezza delle istituzioni ai progressi nelle scienze l’uomo possa aspirare alla felicità. Da secoli l’umanità si pone questo interrogativo a cui prova a dare una risposta, e così anche Freud, a partire dalle scoperte sulla natura umana che la psicoanalisi gli consente di fare, articola una risposta. Con questo scopo individua innanzitutto ciò che impedisce all’uomo di giungere a questa felicità, ciò che si mette di traverso alla ricerca della felicità che sembra accomunare gli uomini.
Delle tre fonti della sofferenza che Freud individua le prime due e cioè la natura e la sua forza dirompente, indomabile e la fragilità del nostro corpo sono fattori ineluttabili della condizione umana quindi l’unica cosa che resta da fare è una pacificante accettazione.
La terza fonte della sofferenza che riguarda le relazioni tra uomini e le istituzioni che le regolano, ciò che potremmo con Lacan chiamare Altro, è invece qualcosa per cui l’essere umano cerca una soluzione rispetto all’infelicità, alla sofferenza che esse procurano.
Ecco quindi che è la civiltà ad essere indicata come fonte della sofferenza, quella stessa civiltà che però, a ben vedere, si pone come argine, come mezzo per sfuggire alle fonti della infelicità umana.
Allora, alla maniera di un cortocircuito, sembra che risulti impossibile all’uomo essere felice, e Freud mostra passo passo le impasse in cui l’uomo si arresta mentre cerca di raggiungere tale felicità.
Le relazioni tra gli uomini, la civiltà che è l’istituzione che le regolamenta permettono all’uomo di trovare un importante punto di equilibrio tra necessità e pulsione e di guadagnare in sicurezza barattando però un po’ di libertà; potremmo allora pensare che un ritorno a civiltà primitive, ad una vita primitiva possa rappresentare una soluzione all’infelicità cui la civiltà condanna l’uomo: dovrebbero ridursi notevolmente, in un’ottica di semplificazione della vita, tutte quelle restrizioni a cui l’uomo sente di essere soggetto. Ma primitivo non significa vita più semplice.
In un modo simile potremmo considerare un’evidenza apparentemente paradossale: se la civiltà che tende a imporre restrizioni e frustrazioni in funzione della sicurezza è all’origine dell’infelicità, come si spiega ciò a cui assistiamo oggi, nella nostra epoca contemporanea, dove al diluirsi dei limiti e delle restrizioni non si accompagna un cambiamento nella soddisfazione dell’uomo, semplicemente non si è più felici?
Una considerazione da aggiungere riguarda anche il livello di innovazione tecnologica a cui siamo giunti come civiltà, i cui ambiti di applicazione e possibilità per l’umanità hanno raggiunto livelli impensabili fino a qualche decennio fa e ampliano enormemente le possibilità per l’uomo permettondogli di superare ostacoli e limiti sempre maggiori. Questo ad una prima considerazione appare come un passo avanti verso il raggiungimento della felicità.
Già Freud, invece, aveva notato come alle scoperte della tecnologia che permettono all’uomo sempre di più di dominare la natura e di far fronte alla fragilità del nostro organismo, due delle fonti dell’infelicità che grazie appunto al progresso della nostra civiltà risultano più sotto il controllo dell’uomo, non corrisponda una maggiore felicità per lo stesso.
Come in un girone senza via d’uscita, in modo paradossale, vediamo come il progresso di pari passo porti con sé una nuova serie di fonti di infelicità e sofferenza.
Come a dire che il progresso portando con sé benefici innegabili non è comunque di per sé stesso ciò che avvicina l’uomo alla felicità.
Il clima nostalgico nei progressi delle scienze, viene messo in evidenza da Benedetta Uda sottolineando che dopo aver individuato il filo tensivo su cui si muove l’uomo, che individua nella civiltà un mezzo per raggiungere la felicità e, al contempo, un vincolo ad essa, risulta interessante considerare l’atteggiamento nostalgico rispetto allo sviluppo della civiltà stessa.
Per farlo, è doveroso essere consapevoli dell’impossibilità nello sviluppare un’opinione pura, scevra dai condizionamenti e dalle logiche relazionali, emotive e ontologiche che derivano dall’abitare il proprio tempo. Guardare alle innovazioni e al progresso della civiltà partendo dalla contemporanea insoddisfazione derivante dalla stessa, impone l’esigenza di de-assolutizzare la propria prospettiva, inevitabilmente soggettiva, che non consente di comprendere appieno le implicazioni causali e consequenziali prodottesi. Dunque, ipotizzare una misura della felicità legata al livello di sviluppo raggiunto in passato, diviene un possibile diversivo rispetto all’incapacità di raggiungere la felicità nel proprio presente. Assumere uno sguardo nostalgico significa, allora, spostare l’idea di felicità, in un tempo-spazio inaccessibile – quello del passato – precludendo aprioristicamente la possibilità di soddisfare i desideri cui le tecniche, sempre più evolute, tentano di dare risposta.
Le tecniche e le scienze che, sin dagli albori, l’uomo ha messo in campo come espressione di dominio sulla natura e controllo della sua forza insoverchiabile e, parallelamente, le regole e le istituzioni sostanzianti la civiltà stessa nelle sue declinazioni sociali, hanno da sempre teso verso l’appagamento del bisogno intrinsecamente umano di felicità. La civiltà si costituisce per supportare e regolare lo sviluppo verso questo punto tensivo.
Sin dall’antichità, l’uomo ha proiettato sulle divinità l’irraggiungibile e il proibito, eleggendole a rappresentazioni ideali del compimento di felicità tanto ricercato, espresso nell’onnicomprensività – apparente – del soddisfacimento del desiderio. Le divinità sono state considerate, in sostanza, degli ideali di civiltà il cui modello ha sostenuto e orientato l’agire umano attraverso i secoli. Ecco, allora, che scienze e tecniche hanno avuto la funzione di sopperire allo scarto tra l’umano e il divino, manifestando ad ogni progresso fatto, tuttavia, l’impossibilità di adempiere al compito salvifico attribuite loro.
L’uomo tende a presupporre che tali ideali siano realizzabili integralmente e, per far sì che ciò avvenga, si rende, per dirlo con le parole di Freud, un dio-protesi. Questa condizione prevede l’estensione e amplificazione delle possibilità umane ma, nel tentativo di potenziarsi, l’individuo si deve scontrare con le ritorsioni che tali artifici generano: poiché non facenti parte della sua stessa natura, maggiori sono i benefici previsti, maggiori sono le complessità cui far fronte.
Questa prospettiva è costitutiva della civiltà stessa e la promessa di felicità suggerita attraversa tutte le epoche, al punto da far pensare che il possesso di tecniche inferiori in termini qualitativi e quantitativi sia stata garanzia di maggior felicità. Come Freud mette in luce, tuttavia, è lo spostamento di senso che diviene funambolico percorso dell’uomo, il quale oscilla tra la nostalgia di un passato idealizzato e la speranza verso un futuro riconciliatore, precludendosi la possibilità di afferrare la felicità nel presente. Questa inafferrabilità, tuttavia, è in un qualche modo riprodotta inesorabilmente dalla civiltà che sembra, in superficie, concorrere ad allontanare l’uomo dalla felicità stessa.
Davide D’Alessandro prosegue il lavoro rintracciando nella Bellezza, pulizia ed ordine: uno spunto di civiltà considerando come l’uomo, per Freud, ha tante pretese nei confronti della civiltà. Pretese di bellezza, di pulizia, di ordine. L’uomo accudisce e provvede a tutto ciò che gli è utile, oltre a usufruirne per difendersi contro le forze della natura. Cura i fiumi perché non straripino, cura il suolo, cura le ricchezze minerarie. Se i mezzi di comunicazione devono essere veloci e sicuri, gli animali selvatici vanno sterminati, favorendo l’allevamento di quelli domestici.
Ma l’industriosità e laboriosità degli uomini deve andare oltre il valore pratico, in modo da raggiungere la bellezza, curando aiuole fiorite, polmoni d’aria pulita, vasi di fiori alle finestre delle case. E con la bellezza, appunto, mostrare pulizia e ordine.
Una civiltà non è stimabile se presenta letame davanti la casa paterna di Shakespeare, a Stratford, o cartacce lungo i sentieri della Foresta viennese. La sporcizia, ogni genere di sporcizia, ci appare incompatibile con la civiltà. Così, anche il corpo umano deve tenersi pulito, tanto da erigere a metro di civiltà il consumo di sapone.
L’ordine è una sorta di coazione a ripetere, un atto che una volta stabilito e compiuto si ripropone per evitare esitazioni e indugi nella scelta. L’ordine aiuta l’uomo a gestire spazio e tempo, risparmiando forze psichiche. Avremmo desiderato che l’ordine fosse insito nell’umano sin dall’inizio, ma così non è stato, poiché l’uomo tende alla negligenza, alla irregolarità e dunque va faticosamente educato.
Nessuno sostiene che bellezza, pulizia e ordine abbiano la stessa importanza per la vita al pari del comando delle forze della natura, eppure non appaiono di scarsa rilevanza. La civiltà non persegue soltanto mete utilitaristiche, per cui bellezza, ordine e pulizia si impongono, fino a giungere al bisogno primario di igiene, probabilmente attivo molto prima dell’epoca della profilassi scientifica. Eppure, aggiunge Freud, l’utilità non spiega tutto. Ci dev’essere altro.
Riteniamo, ad esempio, che nulla dia il segno distintivo di una civiltà del fatto che coltivi le più alte attività psichiche, intellettuali, scientifiche, artistiche, senza trascurare il valore delle idee, tra queste i sistemi religiosi, le speculazioni filosofiche e le formazioni ideali degli uomini, come la rappresentazione di una possibile perfezione della singola persona, del popolo e dell’umanità intera.
La molla di ogni attività umana è l’aspirazione verso la convergenza di ciò che è utile e di ciò che è piacevole, ma le altre attività citate corrispondono a forti bisogni degli esseri umani. Freud raccomanda di non lasciarci fuorviare dai giudizi di valore su questo o quel sistema religioso o filosofico, su questo o quell’ideale. Sia che li vediamo come la più alta realizzazione dello spirito umano, sia che li stigmatizziamo, dobbiamo non solo prendere atto della loro presenza, ma ritenere che il loro predominio significhi un alto grado di civiltà.
Ed in fine Caterina Santagati si domanda come sia possibile rintracciare questo grado di civiltà percorrendo un tragitto del singolo che va dalle relazioni sociali alla libertà individuale.
Alla fine cos’è che ci dà misura di felicità? Cos’è che ci dà misura di una civiltà soddisfatta? O meglio perché tutta questa insoddisfazione nei riguardi della civiltà in cui si vive non trova mai un punto di arresto?
Forse bisogna riconsiderare come, e se, la realizzazione dello spirito umano corrisponderebbe veramente ad un alto grado di civiltà. Quale sarebbe, se è questo che stiamo cercando, il punto di equilibrio tra civiltà, cultura e realizzazione. Perché un alto grado di civiltà, così come ci viene indicato, dovrebbe essere la parte felice di ognuno di noi, la nostra parte di soddisfazione.
Credo sia lecito mettere bene in evidenza ciò che emerge dalla lettura di questo paragrafo del disagio della civiltà, e come Freud partendo proprio dalla cultura, considera e riflette su come e fino a che punto il sapere, l’innovazione, la scienza ci ritornano ciò che abbiamo perso nella semplicità del passato. Freud parte dal singolo per arrivare a comprendere le relazioni con gli altri, alle relazioni che rimandano ad un altro che allo stesso tempo regolano il rapporto con l’altro, con l’altro essere umano come membro di una famiglia di un gruppo sociale.
Questo perché Freud, alla fine del capito III considera come ultimo carattere distintivo di una civiltà il modo in cui sono regolate le relazioni sociali tra gli uomini, questa sua concezione rimanda a ciò che lui sostiene: “La sostituzione del potere della comunità al potere del singolo è il passo decisivo verso la civiltà”.
Questo, Freud lo spiga molto chiaramente sostenendo che chi fa parte di un gruppo, di una comunità sia essa famiglia o società è chiamato, anche senza vederlo in un primo momento, a porsi dei limiti; dei limiti che tutelano il singolo come facente parte del gruppo stesso. Dei limiti che danno giustizia al singolo normalizzando il gruppo. In un gruppo ci sono sempre delle regole che lo fanno funzionare. Così facendo ci si tutela dalla supremazia di un singolo su un altro. Il singolo non conosce le restrizioni non riesce a rientrare nel concetto di “giustizia”, il singolo non tiene conto della comunità non sa farlo in quanto rientra in una cultura di singola volontà. Freud sottolinea che il primo requisito della civiltà è proprio la giustizia, una giustizia che tutela tutti in uguale modo. Il singolo all’interno del gruppo deve mette in atto una rinuncia pulsionale.
Detto questo sembrerebbe che la libertà individuale non coincida con nessuna forma di civiltà. Ma sarebbe veramente questa l’indicazione di Freud?
Ma dobbiamo andare un po’ oltre e ricordarci il periodo storico in cui viene scritto il Disagio della Civiltà, occorre contestualizzarlo. Era il periodo della conformità al movimento nazionalista, lo scenario era l’ascesa al potere di Hitler, il quale proclamava che i tedeschi dovessero scegliere il loro destino, superando la “debole” e “vecchia repubblica”. Hitler odiava gli ebrei, a suo avviso possessori di un potere occulto, che controllava l’alta finanza, la cultura, i giornali, le professioni liberali. In questo contesto sociale ciò che si fa sentire come libertà diventava dunque “ribellione” contro qualcosa che il potere ed anche la comunità stessa considera funzionale. Questa ribellione potrebbe dunque, risultare conciliante ad un’ulteriore avanzamento della civiltà, Infatti l’uomo non può cambiare la propria natura: “egli difenderà sempre la sua esigenza di libertà individuale contro il volere della massa”. (S. Freud il disagio della civiltà pag. 586)
L’accomodamento tra le pretese individuali e quelle collettive, di cui parla Freud, è allora facilmente rintracciabile tra uno di quei problemi irrisolti dell’umanità. Allora la civiltà di cui si parlava prima?
Forse non è raggiungibile non rientra in un concetto di perfezione e standardizzazione, forse quel famoso equilibrio non si troverà. L’individuo felice lo ritrova nella libertà individuale o nella comunità e nel regolare le relazioni sociali?
Freud, in difesa della libertà individuale, sostiene che l’uomo per sopravvivere dunque deve spostare le condizioni del proprio soddisfacimento su altre vie, la definisce sublimazione. Dunque anche la società è costretta a subliminale definendo come suo presupposto il non soddisfacimento di potenti pulsioni. Freud qui parla di “frustrazione civile” e la difficoltà che tale frustrazione mette in atto generando la famosa ostilità, ostilità contro cui tutte le civiltà devono combattere.
Il lavoro di Freud si complica in quanto non è facile capire come si possa privare una pulsione del suo soddisfacimento. Nella misura in cui questa privazione impossibile avviene, si genera in modo inarrestabile il conflitto.
In conclusione quindi la libertà individuale genera una possibile mancanza di giustizia, la repressione di alcune pulsioni che regolano il soddisfacimento rimane impossibile sia nel singolo sia nella società. La sublimazione è possibile ma non sempre attuabile e come conseguenza di una non soddisfazione delle pulsioni si ha l’ostilità che si genera condiziona e determina la comunità. Il singolo diventa poco funzionale alla civiltà così come la società diventa poco funzionale alla soddisfazione del singolo.
Dunque da cosa avrà origine l’evoluzione civile?
Capitolo IV di Marcello Montini e Antonino Zaffiro
In ragione della diversità di prospettive emersa nel corso del lavoro di Cartello, si è deciso di presentare in questa sede tre brevi abstract, afferenti ad altrettante relazioni individuali eventualmente trasmissibili.
Marcello Montini
Dapprincipio, lavoro manuale e collaborazione furono necessari all’uomo per superare la condizione animale. La fondazione della famiglia, evento apripista al processo di incivilimento, antecede rispetto alla cooperazione nel lavoro e consegue alla persistenza del bisogno di soddisfacimento genitale. Questo esita, per il maschio, nella necessità di fruire incondizionatamente dell’oggetto e per la femmina nello stanziamento presso il più forte, invero per la salvaguardia della prole.
Freud sottolinea, tra gli antecedenti di questo processo, l’acquisizione della stazione eretta, cambiamento che avrebbe prodotto una svalutazione degli stimoli olfattivi, associati alla ciclicità mestruale, e una esaltazione delle più stabili e continuative sollecitazioni scopiche, con conseguente valorizzazione dei genitali.
Il mito fondativo è quello di Totem e Tabù. Alle leggi naturali, fondamentalmente individuali, si sostituiscono leggi rappresentative di una presunta volontà collettiva. Due i progenitori: Ananke e Eros, la necessità esterna che impose il pensiero calcolante, e la potenza dell’amore che sollecitò il desiderio di legame stabile e generativo, la pulsione riflessa e operativa tanto nella spinta aggregante quanto nell’egoismo pulsionale. La civilizzazione tende dunque a garantire le condizioni di una felicità collettiva, a prescindere dall’edonismo del singolo.
Appare quindi controintuitivo che il processo di incivilimento possa ribaltarsi e risultare di nocumento alla piena realizzazione della felicità degli esseri umani, ma nei fatti, il sodalizio di amore e civiltà si incrina nel prosieguo del processo di incivilimento: l’amore può divergere rispetto alle pretese del lavoro della civiltà e le esigenze della civiltà possono frapporsi agli interessi dell’amore. Le donne, che avevano incarnato la causa finale degli interessi erotici e sociali, entrano ben presto in contrasto con la civiltà stessa. Le manifestazioni della sessualità sono attenzionate e represse in modo particolare nelle donne poiché, in più, esse subiscono gli effetti delle rimozioni dei loro sposi, configurando una condizione doppiamente onerosa ma soprattutto contraddittoria: sollecitate per rispondere alle pulsioni e inibite nel nome della convenzione. La femminilità segnala pertanto una distintiva vocazione a rappresentare il rovescio del processo civilizzatore, il suo fondamento di verità, ovvero la necessaria rinuncia pulsionale sottesa. Sempre in Totem e Tabù, dopo l’assassinio del padre, ritroviamo infatti le donne nelle lore rispettive famiglie, ma prive di un ruolo sociale, configurando la civiltà come affare da uomini.
Se l’erosione delle risorse libidiche in favore della civilizzazione si rivela da ultimo una contropartita nociva sul piano della piena realizzazione della felicità, le restrizioni in materia di vita erotica lasciano tuttavia aperto il campo alla libera scelta d’oggetto, denunciando come perversioni le forme extragenitali di soddisfacimento. La civiltà, cioè, ammette la relazione sessuale come strumento di procreazione, bandendo il piacere erotico, con il risultato che, se da una parte alcuni si assoggettano a questa disciplina, altri invece assecondano le proprie inclinazioni, agendo forme di trasgressione più o meno tollerate.
Freud afferma che l’esistenza umana è contrassegnata da una tensione verso un godimento che può dispiegarsi come pulsione di morte. Contempla così la parte maledetta della società e dell’individuo stesso, valorizza la fallacia della conoscenza tramite sola ragione e recupera la possibilità di un impiego funzionale della perversione, in quanto necessaria alla civiltà stessa: vizi privati che, sublimati, risultano pubblici benefici.
L’essere umano è soltanto una delle tante forme che la natura ha plasmato. Il cives è quindi strutturalmente vulnerabile al riassorbimento in quella distruttività iperedonistica da cui cerca di proteggersi tramite l‘artificio della società stessa, sullo sfondo del desiderio come ponte tra natura e cultura. Il male sarebbe quindi necessario alla salvaguardia di ogni istituzione, in una sorta di principio omeostatico ma determinando altresì quella logica che può provocare il proprio medesimo scacco.
Antonino Zaffiro
Quella contadina che si lamentava che suo marito non l’amava più, perché non l’aveva più bastonata da una settimana, scrive Freud in nota. Come un virus, il godimento, rappresentato da ciò che non si può dividere, mina alla base ciò che lo genera: il rapporto. Recto verso, senza un godimento percepito come possibile, il rapporto stesso non è che un motore senza benzina. L’insoddisfazione è dunque il prezzo della tenuta, disagio strutturale a ogni forma di vita associata. Al contempo, però, non c’è vita associata che non sia l’alibi di un godimento clandestino. Si può non godere? Non potendo interrogare i morti, restano le storie di rinuncia: affiliazioni, sudditanze, fedi laiche o religiose, istituzioni, storie d’amore, inibizioni. Tutte altrettante forme di godimento.
Forse ognuno può, tramite una psicoanalisi, spiegarsi le condizioni del proprio godimento, che però resta tale: riduzione a oggetto e annullamento del rapporto, come Narciso insegna. In mancanza di una modificazione sinaptica documentabile sperimentalmente, poi, ciascun atto analitico può spiegarsi altrettanto bene come suggestione. Le neuroscienze, se da una parte corroborano le teorie psicoanalitiche, dall’altra ci spingono a una presa d’atto: desiderio dell’Altro è la definizione che occorre per ontologizzare ridondanze di circuiti neuronali, non necessariamente coscienti e spesso separati fra loro (cfr. Massimini, Tononi). Per dirla con una immagine: noi vediamo una nuvola da cui ogni tanto si separano pseudopodi, ma ogni storno non vede che il proprio vicino.
La famosa Ich-Spaltung di cui parla l’ultimo Freud e che mi azzardo a definire una terza topica, va quindi radicalizzata in Ich-Desorganisation: un sistema di connessioni, selezionate nei primi anni di vita a seguito della esperienza e della biologia individuali, o genera una coscienza come proprietà emergente, che ha bisogno di un consimile in cui rispecchiarsi per credersi unitaria, oppure va in pezzi. Che questo andare in pezzi produca una caduta nel sonno o il sonno della ragione, con il sintomo come configurazione di tenuta, non cambia poi molto, poiché la logica di quella Ragione Pura che, calata nell’individuo, è stata detta Inconscio resta intatta, scritta nell’architettura delle sinapsi (cfr. Massimini, Tononi).
Quello che cambia è la modalità di declinazione di questa logica, in ragione della funzionalità o meno delle copie efferenti dei segnali neuronali (cfr. Vallortigara). Se questa genera un livello simbolico sufficiente da tenere il linguaggio negli argini del funzionamento predicativo, allora saremo nell’ambito della normalità (si ricordi che per Winnicott normale e nevrotico erano sinonimi), ma se si produce ponendo il linguaggio nei termini di quella complementarità che dà carne alla certezza, o la annichila nella perplessità, allora saremo nel patologico, e il farmaco ne sarà la condizione preliminare a ogni possibile trattamento.
Capitolo 5 di Carla Antonucci, Elisabetta Spinelli, Giovanna Mauro, Mariella Marotta, Claudio La Valle.
All’inizio di questo capitolo Freud ci dice che la civiltà esige sacrifici, e non solo per quanto concerne il soddisfacimento sessuale. Il contrasto tra sessualità e civiltà deriva dal fatto che, almeno a detta di Freud, l’amore sessuale tra due persone è un rapporto così esclusivo che al suo culmine non c’è alcun interesse per il mondo circostante, mentre la civiltà si basa su relazioni tra un maggior numero di persone. La coppia basterebbe a se stessa al punto tale che per essere felice non avrebbe nemmeno bisogno di figli. La civiltà non si accontenta di questi vincoli di coppia; essa vuole legare libidicamente tra loro i membri della comunità e per questo scopo si serve di ogni mezzo, inibendo grandi quantità di libido alla meta per rafforzare i legami collettivi attraverso relazioni, ad esempio, di amicizia.
Sembra che per Freud sia questo essere impersonale che è la civiltà ad imporre che l’investimento libidico si allarghi alla comunità ed è in questo contesto che Freud fa l’esempio di “Ama il tuo prossimo come te stesso”. Lo trova totalmente inapplicabile nella realtà per diverse criticità. Che vantaggio può derivare da questo precetto? Come ci si può spingere a tanto? Perché in effetti l’amore dell’individuo è una cosa preziosa che non si ha il diritto di gettar via sconsideratamente. Questa frase impone degli obblighi, e come soggetto dovrei fare dei sacrifici per portare avanti il peso di questo insegnamento:. Freud difatti elenca:
- Il mio amore te lo devi meritare,
- Deve assomigliarmi in certi aspetti importanti cosicché in lui io possa amare me stesso;
- L’amore dato a tutti è un amore diviso in così tanti piccoli pezzi che non è praticamente dato a nessuno;
- Devo amare chi è figlio del mio amico perché, se gli accadesse qualcosa, il dolore del mio amico sarebbe anche il mio di dolore, un dolore che condividerei con lui.
- Peggio ancora, tale frase mi imporrebbe: “Ama i tuoi nemici”;
- E come condividere la sua evoluzione in “Amali proprio perché non sono degni di amore”?
La civiltà creerebbe le possibilità “inibite nella metà” di sublimare altrove questa energia. E quindi, come detto, limita la vita sessuale. Tutto ciò per motivi, a detta di Freud, sconosciuti.
Freud si chiede infatti “quale necessità spinga la civiltà” a fare ciò, e relega questo accadimento ad un misterioso “fattore perturbante” non ancora scoperto. Probabilmente ne ha qualche idea ma non osa condividerla. Lo farà tuttavia alla fine del capitolo 6.
Per Freud i precetti etici citati sono un autogol della impersonale signora civiltà, dato che sembra che di riffa o di raffa i malvagi vengano da essa ricompensati (con l’amore).
L’AGGRESSIVITA’ INEVITABILE
A questo punto Freud tocca l’argomento della natura più verosimile dell’essere umano. Non si tratta di una creatura mite che aggredisce solo per difendersi, ma il contrario. Il prossimo è per lui piuttosto un mezzo per sfogare l’aggressività insita nella sua natura.
“Chi, dopo tutte le esperienze della vita e della storia, ha il coraggio di contestare questa affermazione?”.
Freud colpisce a fondo quando dice che la “possiamo avvertire in noi stessi e a ragione presupporre negli altri”. E aggiunge che questa aggressività cerca un piccolo pretesto, oppure si mette al servizio di qualcos’altro, e qui c’è un minuscolo barlume dell’idea di Freud circa l’imprescindibilità della guerra.
A questo punto Freud imputa all’esistenza di questa rischiosa natura umana il fatto che la civiltà necessiti di limare le pulsioni.
Ovviamente tutto questo tentativo della civiltà di limare l’uomo non funziona. Più ai tempi di Freud che ai nostri, i criminali erano puniti perlopiù con la violenza e la vendetta. Nella nostra contemporaneità, l’aggressività verso di loro sopravvive ed è giustificata nel ripudiare l’idea della riabilitazione del criminale.
Qui Freud parla dell’illusione comunista che la sorgente dell’aggressività sia l’esistenza della proprietà privata, che creerebbe le tentazioni nel mite e buono animo umano. Il comunismo promuoverebbe una soddisfazione plenaria di tutti i bisogni, quindi nessun nemico.
Ecco, per Freud l’abolizione della proprietà privata potrebbe togliere uno strumento all’aggressività e far sì che quest’ultima venga riversata molto più violentemente altrove. A parte il fatto che non solo la proprietà materiale, ma anche il rapporto sessuale esclusivo, la famiglia, ecc., sono esperienze che di per sé possono generare invidie e tentazioni. Infatti, Freud sottolinea che l’aggressività è presente come sostrato di ogni rapporto di tenerezza e amore tra esseri umani.
[A questo punto, con una buffa e stravagante stonatura nella sinfonia del discorso, dice che l’eccezione forse può essere il sentimento della madre per il figlio maschio. Punto pregno di soggettività che apre a infinite congetture a proposito della diagnosi strutturale di Freud, della sua percezione dell’essere materno in rapporto al proprio esserne probabilmente ancora angosciosamente oggetto.]L’essere umano non si sentirebbe tranquillo a rinunciare a soddisfare l’aggressività, motivo che secondo Freud contribuisce al suo essere infelice nella civiltà.
Per gli uomini non è dunque facile rinunciare al soddisfacimento di questa tendenza a essere aggressivi. Quando si creano degli ambiti circoscritti di civiltà (i confini tra gruppi) si possono creare le condizioni per consentire alla pulsione di sfogarsi contro coloro che ne sono al di fuori. Ovvero, l’accordo, l’identificazione, la cooperazione tra i membri di una comunità si fortificherebbe a patto che l’inclinazione aggressiva insita in tutti noi venga giustificata solo nei confronti di chi è fuori dal gruppo. Freud lo chiama “narcisismo delle piccole differenze”, e si tratta di un comodo e relativamente innocuo soddisfacimento di una parte dell’irriducibile pulsione aggressiva, il quale contribuisce così a far circolare tra i membri di una circoscritta comunità una libido che possa venire incontro alle esigenze della civiltà.
Freud già nel suo tempo nota come l’amore e la coesione all’interno di un gruppo venga rafforzato dall’aggressività manifestata verso chi vi è esterno e incompatibile. Fa diversi esempi: il più rappresentativo è quello del cristianesimo che, pur ergendosi sul concetto di amore universale (presupponendo tra l’altro che l’universo sia il proprio gruppo), fa sorgere una inevitabile ed estrema intolleranza nei confronti dell’ “infedele”. Freud fornisce una prova di ciò osservando come gli antichi romani, che non avevano certo fondato la loro collettività sull’amore universale, non conoscessero l’intolleranza religiosa (benché per loro la religione fosse affare di Stato).
Freud cerca poi di riappacificarsi con la impersonale signora civiltà, sia che essa accomodi i suoi metodi in futuro sia che la sua imperfezione continui a resistere a tentativi di riforma. Tuttavia, nelle ultime battute, mette in guardia relativamente a ciò che chiama “l’identificazione reciproca dei membri”, quando orfani di leader, all’interno di ogni comunità circoscritta.
Da queste concettualizzazioni potrebbe sembrare che la civiltà abbia la necessità di sfruttare il “confinamento” di gruppi per incanalare e giustificare un’aggressività inevitabile.
Capitolo VI
di Sabrina Petrella, Raffaella Cantore, Marianna Genitore, Stefania Pensa, Diego Centonze, Marco Guareschi, Marco Lipera.
Nel sesto capitolo Freud fa una breve sintesi del lavoro meticoloso che lo ha impegnato sullo sviluppo del concetto di pulsione. Nel 1930, anno in cui è stato pubblicato Il disagio della civiltà, la teoria delle pulsioni aveva già compiuto la sua evoluzione che era culminata con il riconoscimento di una pulsione aggressiva e indipendente. In questo saggio, dunque, lungi dal compiere una nuova modifica della teoria pulsionale Freud propone piuttosto di proseguire con quanto già acquisito per cogliere nel dettaglio come la pulsione opera attraverso l’uomo nella società.
Nel corso dello sviluppo della teoria psicoanalitica questa delle pulsioni è stata certamente la parte più difficoltosa, il suo carattere tortuoso e non intuitivo ha fatto sì che il suo avanzamento procedesse per tentativi. Freud stesso ci spiega come all’inizio delle sue riflessioni, nell’incertezza di non sapere bene da quale punto partire, abbia trovato appiglio in una celebre espressione del poeta Schiller, in cui si afferma che la “fame” e “l’amore” tengono insieme i meccanismi del mondo e ne permettono il movimento. Più precisamente, il termine che viene utilizzato per definire gli accadimenti del mondo è Getriebe che corrisponde in italiano alla parola ingranaggio, trasmissione. Nell’intuizione del poeta Freud vi riconosce i meccanismi fisiologici, animati da un principio di forza vitale, che stanno alla base della tenuta della società umana, e che sono necessari per la salvaguardia del singolo e della specie. Su questi due cardini fonda dunque una prima bipartizione secondo la quale la fame veicola la pulsione che opera al servizio della conservazione del singolo, e l’amore con il suo carattere erotico spinge in direzione degli oggetti in favore della conservazione della specie. Questo schema minimale ripartisce le esigenze pulsionali in due vettori contrapposti, l’uno riconducibile alle pulsioni dell’Io e l’altro riconducibile alle pulsioni oggettuali, o altrimenti dette libidiche.
Con l’avanzare della teoria psicoanalitica, a partire da Introduzione al narcisismo del 1914, si è resa tuttavia indispensabile una modificazione. Con la teoria del narcisismo la bipartizione iniziale della pulsione – dove si è detto che il carattere libidico viene conferito solo alla pulsione oggettuale – decade in quanto l’Io – precedentemente concepito come dotato di proprie pulsioni di conservazione non libidiche – si configura come un’istanza che non solo viene investita anch’essa dalla libido – dando appunto luogo la narcisismo -, ma che proprio dell’Io la libido ne fa addirittura la sua dimora, da cui eventualmente origina per riversarsi in un secondo momento all’esterno degli oggetti.
Ora, questo passaggio – cioè che l’Io stesso è libidico, che quindi smonta l’idea che il libidico stia solo dal lato delle pulsioni oggettuali – non ha incrinato l’assunto di base che vede la nevrosi come il tentativo da parte dell’Io di proteggersi dalla sessualità, quanto piuttosto il concetto stesso di libido.
A questo punto, si domanda Freud, ora che le pulsioni dell’Io sono anch’esse libidiche bisogna dunque dar ragione a Jung la cui tesi è quella di far coincidere la libido con l’energia pulsionale?
Freud, che non si rassegna nel concepire le cose in questo modo, avanza piuttosto l’idea che non tutte le pulsioni sono della stessa specie. Il punto di svolta avviene, dunque, nel 1920 dove, con la pubblicazione di Al di là del principio di piacere, viene dimostrata l’esistenza di una pulsione distruttiva indipendente da quella erotica. In questo saggio Freud si sofferma sul concetto di coazione a ripetere e sul carattere conservativo della vita pulsionale, che unitamente ad una riflessione sulle origini della vita e su certi funzionamenti biologici arriva a concludere che oltre alla spinta a conservare e a legare in unità più grandi gli elementi vitali, deve necessariamente esistere una pulsione opposta, che opera cioè in modo contrario, ovvero in favore di una dissoluzione delle unità precedentemente legate, allo scopo di ricondurre il vivente allo stato primordiale inorganico.
Ne consegue che la nuova bipartizione non prevede più una separazione tra le pulsioni conservatrici dell’Io e quelle libidiche oggettuali della specie – che in un primo momento sono state presentate come antagoniste, cioè in lotta fra loro -, ma piuttosto, in quanto ora entrambe libidiche, che concorrono per lo sviluppo e la difesa della vita, la nuova bipartizione segue così una nuova logica secondo la quale la separazione insiste tra le forze che uniscono e le forze che dissolvono. Abbiamo così Eros da un lato e pulsione di morte dall’altro.
Ricapitolando, quest’ardua sfida in cui si è ingaggiato Freud per colmare la lacuna del concetto della pulsione nella teoria psicoanalitica, dopo un primo tempo in cui si è trattato di individuare il terreno solido da cui far partire la ricerca, si è passati poi a documentare minutamente la presenza della pulsione di morte che per sua natura non è così visibile, come Eros che invece si presenta agli occhi della gente molto più facilmente. Il carattere di quest’ultimo infatti è rumoroso, plateale tanto da non lasciare spazio a dubbi interpretativi, ma lo stesso non si può dire della pulsione di morte che al contrario ha un carattere nascosto, e di cui si può scorgere qualcosa solo come materiale di risulta della pulsione erotica. A complicare le cose, o a confondere le idee, è dunque la circostanza che nell’essere vivente umano le due pulsioni le troviamo spesso e per lo più in forma mischiata: il sadismo e il masochismo, rappresentano gli esempi più eminenti dove evidentemente è in gioco una cooperazione tra le pulsioni dell’eros e quella di morte, come espressione di un’alleanza tra le forze distruttive e le spinte erotiche rivolte in direzione di una meta sessuale. In questi casi la pulsione di morte si scorge chiaramente sotto forma di aggressività, e anche dove fa la sua comparsa senza alcuna mira sessuale è possibile in certi casi riconoscere un legame con un godimento narcisistico elevatissimo, che procura all’Io il soddisfacimento dei suoi bisogni vitali e il dominio della natura. Pertanto, anche se il nome libido resta sempre valido per distinguere le manifestazioni dell’Eros da quelle della pulsione di morte, e anche se in un certo senso quest’ultima la indoviniamo soltanto sullo sfondo, cioè ne cogliamo delle sfumature dietro l’Eros o il godimento narcisistico, resta sempre il fatto che è difficile distinguere le due pulsioni, e che in certi casi lì dove non c’è nessuna connessione con Eros essa può sfuggirci addirittura del tutto.
Qui stiamo portando avanti la tesi dell’esistenza di una pulsione di morte o distruttiva indipendente dalla libido. Di fatti, però, la pulsione di morte non la cogliamo mai in forma pura e distillata, ma piuttosto essa eccede tra le pieghe della pulsione erotica, e come una distorsione, disallinea la trasmissione degli ingranaggi rendendo la vita più ingolfata o nei peggiori dei casi distruggendola. Quindi, come un parassita ineliminabile, la pulsione di morte si insinua nel mondo a cui viene impedito così di costituirsi come un tutto armonico, omogeneo e ordinato. Da ciò si può certamente supporre come essa lavori in modo silente all’interno dell’organismo verso una sua stessa dissoluzione, ma per essere certi di tale affermazione bisogna comunque poterne fornire delle prove convincenti.
Questo suo carattere non apparente, e questo suo mostrarsi visibile solo nell’evidenza di rapporti erotici, essi stessi per loro natura capaci di distogliere più l’attenzione dell’osservatore, hanno reso il lavoro di riconoscimento della pulsione distruttiva indipendente e originaria molto arduo; difficoltà per altro rinforzata da una naturale disposizione umana di rigettare l’idea stessa di tale esistenza. Freud in questo saggio avanza infatti una tesi scomoda che non ha trovato immediatamente il favore del mondo scientifico del suo tempo, e né persino tra le fila dei suoi stessi colleghi psicoanalisti. Per farsi largo, dunque, in un contesto dominato da una certa mentalità borghese dei primi del 900 Freud afferma che in genere l’uomo tende a non voler riconoscere l’esistenza di una tendenza innata dell’uomo all’aggressione, alla distruzione e alla crudeltà, affermazione che oggi risulta paradossalmente anacronistica per il semplice fatto che la società odierna mostra chiaramente quanto le idee di Freud fossero valide.
Abbiamo sostenuto la tesi che la tendenza aggressiva sia nell’uomo una disposizione pulsionale, originaria e indipendente. A partire da ciò, cosa poter dire dei rapporti che l’uomo, non esente di una tale disposizione, intrattiene con la civiltà che è un prodotto esso stesso di una disposizione umana uguale e contraria a quella di distruzione?
La civiltà è un processo necessario per l’uomo, dove si trova in esercizio l’Eros che opera in primis raccogliendo individui sporadici, che poi riunisce in famiglie, in stirpi, in popoli, nazioni, e via via in unità sempre più grandi. Va osservato che i vantaggi che l’uomo ricava dal lavoro in comune non basterebbero da soli a giustificare l’unione e la tenuta di tutte queste moltitudini, per altro minacciate dalla persistente opera dissolutrice della pulsione di morte. Il calcolo delle necessità, infatti, nulla può a confronto con l’immane energia che richiede una funzione simile, solo una forza unificatrice smisurata dispone di tale potere, e ciò significa che due individui, per essere tenuti insieme, devono essere legati l’uno all’altro libidicamente. A questo naturale programma, dunque, fa da contraltare la spinta naturale aggressiva, la cui mente umana, in ragione di valide argomentazioni, si rifiuta fermamente di riconoscerla in se stessa. Si tratta di un’ostilità di ciascuno contro tutti e tutti contro ciascuno. Questa pulsione aggressiva è per l’appunto l’espressione della pulsione di morte che ritroviamo accanto all’Eros, o per meglio dire, da cui essa residua e dove in esso si nasconde, e con il quale in fine si spartisce il dominio sul mondo.
L’evoluzione civile si può riassumere quindi come una lotta tra Eros e Morte, tra pulsione di vita e pulsione di distruzione. Questa lotta si situa nella vita stessa per cui l’evoluzione civile può definirsi come la lotta per la vita della specie umana.
Capitolo VII
di Arena Alessandro, Errico Egidio, Tisi Carla, Liberatore Loredana, Costantini Roberta, Isabella Roberto
In questo capitolo Freud si pone l’obiettivo di indagare i mezzi che la civiltà utilizza per inibire, controllare la innata disposizione pulsionale aggressiva dell’uomo, originaria e indipendente. Se non ci fosse un controllo di tale pulsione, la civiltà non potrebbe progredire e la specie umana non potrebbe sopravvivere. Per Freud la pulsione aggressiva è talmente connaturata all’uomo che, se non fosse controllata, eliminata o resa innocua, distruggerebbe completamente ciò che la pulsione di vita, o Eros, costruisce in termini di legami libidici tra gli individui, assicurando loro la protezione, la prosecuzione della specie e la costituzione di comunità di uomini via via crescenti in termini numerici, dalla famiglia fino all’intera umanità.
La civiltà si sviluppa e progredisce perché l’innata aggressività dell’uomo verso i suoi simili viene controllata mediante l’interiorizzazione o l’introiezione della pulsione aggressiva. La chiave di volta per l’instaurarsi di questo potente freno all’aggressività dell’uomo è l’istituzione, durante le fasi di sviluppo dell’individuo, di una autorità interna, chiamata Super-Io, che consente di ribaltare la direzione della pulsione aggressiva, che da questo momento in poi non verrebbe più direzionata verso l’esterno, ma verso l’interno dell’individuo, riconducendola cioè dove è originata. Più precisamente il Super-Io origina dall’Io attraverso i processi di identificazione all’autorità esterna, riceve l’aggressività dell’individuo e, attraverso la sua funzione principale che è la coscienza morale, dirige verso il proprio Io questa aggressività che, lo stesso Io, avrebbe voluto rivolgere all’esterno. La coscienza di colpa esprime la tensione che si instaura tra Io e Super-Io, e il bisogno di punizione esprime la sottomissione dell’Io al Super-Io. Questo è il meccanismo più potente di cui si serve la civiltà in quanto consiste nel disarmare l’individuo e nel controllarlo dall’interno. Lo sviluppo del senso di colpa presuppone che la capacità di discriminare il male dal bene sia già operante nell’individuo.
Freud individua due tipi di controllo dell’aggressività. Il primo di questi è l’angoscia di perdere l’amore. L’uomo non è dotato della capacità originaria e naturale di discernere tra bene e male, come testimonia il fatto che l’esercizio del male può non essere pericoloso per l’individuo; inoltre spesso il male è desiderato in quanto procura piacere all’Io. Pertanto Freud ipotizza che deve necessariamente esserci un intervento esterno che determini la capacità di discriminazione tra bene e male. L’uomo spontaneamente non sceglierebbe né la strada della sottomissione, né quella della rinuncia al male; tuttavia, a causa della sua condizione originaria di “stato di impotenza” o di “disaiuto” (Hilflösigkeit)¹ al momento della nascita e oltre, deve sottostare a questo influsso esterno. Ne consegue che, il male più grande, in questa condizione di dipendenza e impotenza, consiste nella perdita dell’amore dell’altro, cioè dell’adulto da cui dipende. In questa fase l’angoscia di perdere l’amore consiste nel terrore della perdita della protezione, ma soprattutto nella angoscia della punizione attesa, definita da Freud angoscia sociale.
¹ Termine usato da Freud per indicare l’incapacità del neonato di compiere l’azione specifica necessaria al soddisfacimento del bisogno. E’ stato tradotto nella letteratura psicoanalitica freudiana con “stato di impotenza” o “disaiuto” che indica, in maniera più ampia di quella indicata da Freud, uno stato insostenibile per il neonato e che è legato al profondo grado di immaturità, fisica e psichica, con cui viene al mondo l’uomo rispetto agli altri mammiferi.
Se il male viene identificato con la perdita dell’amore dell’adulto da cui si dipende e che si deve assolutamente evitare, ne consegue la sottomissione a questa autorità esterna. Da questa paura deriva la rinuncia pulsionale. Da sola, però, l’angoscia non basta a frenare la tendenza naturale all’aggressività, cioè non è sufficiente per rinunciare alle pulsioni. Se la paura di perdere l’amore fosse l’unico mezzo a dover controllare l’aggressività, l’uomo tenderebbe a soddisfare le sue pulsioni aggressive quando può non essere scoperto dall’autorità da cui dipende. Il secondo tipo di controllo viene identificato nel Super-Io, la cui edificazione rappresenta la vera svolta nel controllo dell’aggressività, in quanto, con essa, il Super-Io si sostituisce all’autorità esterna e agisce dall’interno. Non è necessario che il male sia commesso, basta l’intenzione o il desiderio di aggressività a mettere in moto la repressione del Super-Io, perché per il Super-Io, azione e sua intenzione coincidono. Questa istanza è rappresentata a livello cosciente dalla cosiddetta coscienza morale e nell’inconscio dal senso di colpa, come dirà in seguito Freud. Come di fronte all’autorità esterna l’Io prova l’angoscia di perdere l’amore, così di fronte a questa autorità interna l’Io prova angoscia morale se una pulsione libidica e/o aggressiva preme per il suo soddisfacimento.
Svolta la sua funzione originaria sul controllo delle pulsioni e dell’aggressività, questa istanza psichica dovrebbe rimanere silente. In alcune circostanze, tuttavia, la tirannia di questo Super-Io pulsionale può riprendere vigore e tormentare l’Io facendogli provare gli stessi sentimenti d’angoscia dei tempi originari della sua formazione. È il caso apparentemente anomalo delle persone più virtuose o i santi, i quali sono tormentati dalla coscienza morale con sentimenti di colpa, angoscia e autoaccuse. L’opinione comune secondo cui questi sono gli individui che più di altri hanno un enorme numero di pulsioni frustrate e quindi verosimilmente più desiderosi di soddisfacimento pulsionale, non soddisfa Freud, che cerca piuttosto una via psicoanalitica per spiegare questo eccesso di tirannia da parte del Super-Io. Anche gli eventi sfortunati della vita, vissuti come l’espressione dell’abbandono della protezione genitoriale, rappresentano una ulteriore occasione nella quale il Super-Io può tornare a tormentare l’individuo attraverso lo sviluppo di sentimenti di colpa e l’insorgenza di un bisogno di punizione. In questi casi la coscienza morale rafforza le sue pretese e può indurre a compiere penitenze estreme. Questi sono solo gli esempi più visibili, ma la clinica dimostra che in tutte le nevrosi si osserva la presenza di coscienza di colpa (come nella nevrosi ossessiva) oppure di sensi di colpa inconsci (in tutte le altre nevrosi). Per Freud l’acquisizione evolutiva del Super-Io comporta per l’individuo una condizione economicamente svantaggiosa, in quanto genera un eccesso sia di senso di colpa, che di bisogno di punizione, eccesso che va ben oltre la sua funzione originaria. Del resto con la sola angoscia di perdere l’amore dell’autorità esterna e una volta rinunciato al soddisfacimento pulsionale, non c’è la formazione del senso di colpa poiché ci si allinea alle richieste attese dell’autorità. Possiamo considerare il senso di colpa e il bisogno di punizione il prezzo da pagare per la civiltà in quanto con la formazione del Super-Io si verifica il vero processo di civilizzazione. Questo eccesso di aggressività diretta all’interno, è ciò che Freud definisce tensione della coscienza morale, e viene espressa in una frase che sintetizza tutto quanto finora ipotizzato: si è barattata una un’infelicità minacciata dall’esterno con un’infelicità interna permanente. Il paradosso che emerge è che ciò che controlla l’aggressività, il Super-Io, genera a sua volta aggressività, anche se autodiretta. Il Super-Io così costituito infatti è pulsionale, per la sua caratteristica di serbare l’aggressività e per la sua tendenza alla scarica che lo rendono un vero tiranno interno.
Freud indica una Successione cronologica nello sviluppo individuale dei due meccanismi individuati, sequenza temporale a cui, tuttavia, dà solo una valenza esplicativa, in quanto i processi descritti sono talmente complessi da ipotizzare che essi possano verificarsi contemporaneamente. La prima fase di questo sviluppo inizia già nei primi rapporti che il cucciolo dell’uomo intrattiene, di necessità e a causa della sua impotenza originaria, con un adulto pulsionale e linguistico, che interviene nelle cure del neonato/bambino educandolo, sin da dalle prime fasi dell’accudimento, alla rinuncia pulsionale. Le pulsioni a cui il neonato/bambino deve rinunciare durante l’accudimento/educazione sono di vario tipo e comunque libidiche. La pulsione aggressiva del bambino non è altro che una pulsione risultante dalla rinuncia pulsionale pregressa e ha carattere vendicativo, cioè diretta verso il genitore, che ha inibito originariamente le pulsioni. Il bambino dovrà rinunciare successivamente anche a questa pulsione aggressiva. In questa prima fase, coincidente con la fase primordiale dello sviluppo individuale, ma che può essere ancora presente nell’adulto, la rinuncia pulsionale avverrebbe per paura di perdere l’amore dell’autorità esterna in quanto quest’ultima potrebbe aggredirlo e punirlo (adulto pulsionale). Questa fase di angoscia di perdere l’amore è protettiva per l’Io ancora indiviso, in quanto evita all’Io l’aggressione della punizione o il timore di essa, che rappresentano il male da cui difendersi. Nella seconda fase dello sviluppo si istituisce una autorità interna sotto la spinta della tensione, economicamente insostenibile, dovuta all’impossibilità di scarica della pulsione aggressiva risultante dalla rinuncia pulsionale, la cui presenza è testimoniata dall’angoscia morale, che è il primo rudimento di coscienza morale. L’Io, finora indiviso, fa fronte a questa situazione andando incontro a una scissione, una parte dell’Io scisso si identifica con l’autorità esterna invincibile e accoglie tutta l’aggressività non scaricata, e si definisce Super-Io; l’altra parte dell’Io subirà invece la tirannia della nuova autorità così costituita, infatti la risultante di questo processo consiste nel fatto che l’Io aggredisce sé stesso. La rinuncia pulsionale si ha per paura di questa nuova autorità interna; Freud definisce angoscia morale questa paura iniziale nel processo di formazione del Super-Io. È interessante che in questo lavoro Freud teorizzi un Super-Io primitivo rispetto a quanto fatto in precedenza (L’Io e l’Es, 1922; Il tramonto del complesso edipico, 1924), cioè preedipico, perché il suo sviluppo non deriva dalla angoscia di castrazione ma dalla paura/terrore della perdita d’amore della strapotenza genitoriale, che l’uomo sperimenta all’origine del suo sviluppo a causa delle sua condizione di impotenza.
Per quanto riguarda l’origine della coscienza morale, Freud avanza due ipotesi non in contraddizione tra loro. La prima sostiene che l’interiorizzazione dell’autorità esterna non avvenga per un passaggio diretto dall’esterno all’interno, infatti l’ipotesi che la severità del Super-Io sia proporzionale alla severità dell’autorità esterna viene smentita dai fatti e anzi potrebbe sembrare inversamente proporzionale, cioè una educazione debole può dare origine ad un Super-Io molto severo. In questa ultima evenienza Freud ipotizza che la severità dell’autorità esterna venga fusa con l’aggressività vendicativa nei confronti delle sue richieste; cioè che l’autorità esterna sia in parte interiorizzata in modo tale da essere attaccata dall’interno, e in parte identificata all’Io del bambino mediante l’amore ambivalente nei suoi confronti. Si riprodurrebbe la relazione reale tra l’Io, ancora indiviso, e un oggetto esterno, ma capovolta, che Freud sintetizza con la seguente frase: se io fossi il padre e tu il figlio, ti tratterei male. Nonostante faccia ricorso a un modello filogeneticamente trasmesso, secondo il quale il padre preistorico era terribile e capace di qualsiasi aggressione per rendere ragione di questa ipotesi genetica, Freud appare non del tutto convinto di questa origine della coscienza morale, pertanto ne avanza una seconda non facilmente intuibile e prettamente psicoanalitica. Inizialmente sono interiorizzate la proibizione e l’imperativo esterno; l’angoscia che questi provocano è la causa della rinuncia pulsionale, ma poi la relazione si inverte. Se inizialmente le continue rinunce pulsionali causano angoscia morale e rinforzano sempre di più la stessa angoscia trasformandola in coscienza morale, successivamente la coscienza morale, così istituita, diventa essa stessa la causa della rinuncia pulsionale, così che ad ogni rinuncia pulsionale la coscienza morale diventa sempre più severa e intollerante verso le pulsioni e ne esige sempre di più la rinuncia. Così la rinuncia pulsionale crea una coscienza morale e la rafforza; cioè la rinuncia pulsionale diventa l’autentica fonte di energia del Super-Io e il rapporto causale tra rinuncia pulsionale e coscienza morale si ribalta. Entrambe le ipotesi coincidono nel fatto che l’aggressività vendicativa, risultante da questo processo, è almeno in parte determinata dall’entità dell’aggressività punitiva che ci si aspetta di ricevere dal genitore.
Senso di colpa, bisogno di punizione e complesso edipico. Alla fine del capitolo Freud è spinto ancora a indagare sul mistero del senso di colpa, come se mancasse ancora qualcosa di fondativo alle ipotesi fin qui esposte. La posta in gioco è il mantenimento del dualismo pulsionale sin dalle origini, e il suo radicamento in un fattore costituzionale (biologico e psicologico). A tal fine astrae dal modello di sviluppo dell’individuo un modello filogenetico del senso di colpa; fa appello al suo mito dell’uccisione del padre dell’orda primitiva di Totem e tabù ponendolo come l’evento all’origine del complesso edipico, per concludere che, in tale ipotetica occasione primigenia, il rimorso conseguente sarebbe stato il risultato dell’ambivalenza primordiale dei sentimenti nei confronti del padre; l’amore verso il padre sarebbe insorto solo come conseguenza dell’odio omicida primordiale e il Super-Io sarebbe stato eretto come punizione per il crimine commesso e come ammonizione contro una sua ripetizione. L’ambivalenza primordiale dei sentimenti nei confronti dei genitori è l’espressione della lotta eterna tra eros e la pulsione di distruzione o di morte che ha origine proprio con l’inizio della convivenza umana, cioè con l’origine della famiglia. Il punto cruciale di tale racconto mitico non è tanto la sua plausibilità o meno, ma il fatto che, fintantoché la pulsione di vita vincola libidicamente gli uomini tra di loro in unità, di cui la più semplice è la famiglia, e finché essa resta il luogo privilegiato dell’accudimento primario, l’Edipo, a tempo debito, erediterà un conflitto già in essere tra eros e pulsione di morte e riassorbirà i suoi derivati: senso di colpa, bisogno di punizione, angoscia, autoaggressività. Freud scopre un conflitto, già esistente nell’individuo a partire dai primi momenti di vita, dovuto alla costituzionale ambivalenza pulsionale originaria.
Quattro i punti essenziali di questo capitolo: 1) scoperta della formazione di un Super-Io anticipato (rispetto a quanto teorizzato in precedenza), che viene edificato sotto la spinta della angoscia/terrore della perdita di amore dei genitori strapotenti rispetto all’originaria condizione del neonato; 2) questo Super-Io così primitivo esprime una potenza pulsionale distruttiva autodiretta come risultante di una primaria aggressività eterodiretta, e che questa operazione di inversione di oggetto della pulsione comporta ineludibilmente l’insorgenza di un senso di colpa e di un bisogno di punizione; 3) il Super-Io così edificato porta con sé un eccesso di autoaggressività, come attestato dalla clinica delle nevrosi; 4) il processo di civilizzazione, nel tentativo di controllare l’aggressività, paradossalmente la genera.
Capitolo VIII
di Arena Alessandro, Errico Egidio, Tisi Carla, Liberatore Loredana, Costantini Roberta, Isabella Roberto
Sintesi
Freud sostiene che il Senso di Colpa è il problema più importante nel processo di incivilimento1; egli intende dimostrare che l’incivilimento come processo richiede un prezzo: una perdita di felicità man mano che aumenta il senso di colpa.
Il senso di colpa può essere cosciente: in questo caso lo chiamiamo coscienza della propria colpa e comprende un effetto di senso che riguarda l’Io; oppure può essere inconscio e in questo caso lo chiamiamo sentimento di colpa e determina un bisogno inconscio di punizione.
Nella clinica delle nevrosi questa distinzione è utile in quanto nella nevrosi ossessiva il senso di colpa arriva alla coscienza e domina sia il quadro clinico sia la vita del paziente, mentre nelle altre forme di nevrosi il senso di colpa inconscio diventa un bisogno inconscio di punizione e manifesta effetti egualmente rilevanti sul piano clinico.
Il senso di colpa secondo Freud non è che è una specie diversa di angoscia ed è alla base di tutti i sintomi.
L’angoscia può manifestarsi sia in modo cosciente attraverso un grande tumulto emotivo oppure può rimanere inconscia e restare ignota al soggetto stesso.
Una delle soluzioni che l’umanità ha cercato per gestire il senso di colpa è stata lo sviluppo delle religioni: per esempio il cristianesimo suppone il sacrificio di un singolo che assume su di sé la colpa di tutti.
A questo punto Freud distingue alcuni concetti: il Super-io, la coscienza morale, il senso di colpa, il bisogno di punizione, il rimorso .
La coscienza morale è la funzione del Super-io che mira a sorvegliare e giudicare le azioni e le intenzioni dell’Io
1 Sottolineo la differenza tra i due significanti “incivilimento” e “civilizzazione” poiché, benché utilizzati spesso come sinonimi, presentano un accento diverso sull’agentività dell’individuo: il primo con maggiore significato di azione dell’individuo su se stesso; il secondo con maggiore enfasi sull’azione dell’individuo verso l’esterno.
Riporto di seguito i lemmi dal Dizionario Treccani online inciviliménto s. m. [der. di incivilire]. – L’incivilire o l’incivilirsi; progresso verso uno stadio più elevato di civiltà nell’ordinamento, nelle istituzioni e nelle consuetudini sociali: contribuire all’i. di popolazioni primitive. civilizzazione civiliżżazióne s. f. [der. di civilizzare, sul modello del fr. civilisation (che ha però anche il sign. di «civiltà»)]. – 1. Il rendere o il divenire civile, cioè il fatto di dare o di […] acquistare condizioni materiali, sociali, culturali di vita più evolute; incivilimento. 2. Con sign. recente, passaggio dallo stato militare a quello civile, soprattutto con riguardo al trattamento sindacale
Il senso di colpa è la percezione che l’Io ha di essere sorvegliato e giudicato nelle sue azioni ed intenzioni dal Super-io, la tensione tra i desideri dell’Io e le esigenze del Super-io.
L’angoscia è una parte della pulsione presente nell’Io. Una parte tendente alla distruzione interna per formare un vincolo erotico col Super-io, in quanto l’Io è diventato masochista sotto l’influsso del super-io sadico.
Si tratta in fondo di una ricerca di un equilibrio all’interno del conflitto tra il bisogno di essere amati dall’autorità e la spinta verso il soddisfacimento pulsionale.
La ricerca di questo equilibrio è necessaria in quanto l’inibizione del soddisfacimento pulsionale genera l’aggressività.
Osserviamo quindi la sovrapposizione di due livelli del senso di colpa: uno che deriva dal timore dell’autorità esterna l’altro dal timore dell’autorità interna
Il rimorso indica la reazione dell’Io in caso di senso di colpa; è una punizione in sé e può includere il bisogno di punizione.
Possiamo dire quindi che il rimorso costituisce il senso di colpa dopo un’aggressione realmente effettuata mentre il senso di colpa puro è la conseguenza di aggressioni non compiute.
Qui Freud espone una dinamica particolare in 4 punti partendo da un problema clinico: come spiegare che al posto di una pretesa erotica inappagata subentra un’esaltazione del senso di colpa?
- Il soddisfacimento erotico è
- L’aggressività si dirige contro la persona che turba il
- Questa aggressività deve essere a sua volta
- Questa aggressività repressa si trasforma in senso di colpa e viene trasferita al Super-Io .
Questo è coerente con la teoria del processo di rimozione: i sintomi delle nevrosi sono essenzialmente soddisfacimenti sostitutivi di desideri sessuali inappagati.
L’impasto pulsionale di Eros e Thanatos si dispiega: le part i libidiche si trasformano in sintomi
mentre le sue componenti aggressive si trasformano in senso di colpa.
Questa lotta tra Eros e pulsione di morte si applica sia al processo di incivilimento cui l’umanità è sottoposta, sia allo sviluppo dell’individuo singolo e possiamo considerarla una chiave di lettura per comprendere il segreto della vita organica in generale.
La sola definizione soddisfacente per Freud dell’incivilimento è che esso sia quella modificazione del processo vitale che si produce sotto l’influsso di un compito assegnato dall’eros e stimolato
dall’Ananke, dalla necessità reale, e questo compito consiste nel riunire uomini dispersi in una comunità i cui membri hanno fra loro vincoli libidici.
Il processo di incivilimento dell’umanità e il processo evolutivo o educativo dell’uomo singolo sono di natura assai simile ma si distinguono per un aspetto importantissimo:
- nel processo evolutivo dell’uomo singolo il programma del principio di piacere, cioè trovare soddisfacimento e felicità, è costantemente assunto come meta principale mentre l’inserirsi o l’adattarsi a una comunità umana appare come una condizione cui ci si può sottrarre a stento e che deve essere adempiuta lungo il cammino che ha come meta la felicità;
- nel processo di incivilimento, invece, la meta di gran lunga più importante è forgiare l’unità degli individui umani mentre la meta della felicità sussiste ancora ma è relegata sullo sfondo; sembra quasi che si giungerebbe assai più agevolmente a costituire una grande comunità umana se non ci si dovesse preoccupare della felicità del singolo.
Dal momento che l’uomo singolo partecipa al corso evolutivo dell’umanità mentre segue la propria strada nella vita, necessariamente in ogni individuo infuria la lotta tra due tendenze: quella verso la felicità individuale e quella a riunirsi con gli altri esseri umani.
Ma anche la Comunità sviluppa un Super-io sotto il cui influsso si compie l’evoluzione civile.
Il Super-io della civiltà è andato svolgendo i suoi ideali ed elevando le sue esigenze: fra queste ultime quelle che riguardano le relazioni degli uomini tra loro vengono comprese sotto il nome di etica.
Il Super-io individuale si preoccupa troppo poco della felicità dell’Io in quanto non tiene conto delle resistenze contro l’obbedienza, in primo luogo la forza pulsionale dell’Es e poi le difficoltà del mondo reale circostante.
Anche il Super-io della civiltà non si preoccupa abbastanza degli elementi concreti nella costituzione psichica degli esseri umani: emana un ordine e non si domanda se sia possibile eseguirlo; presume che l’Io dell’uomo sia in grado di sottostare a qualsiasi richiesta, che l’Io abbia un potere illimitato sul suo Es, ma questo è un errore e anche negli uomini cosiddetti normali la padronanza dell’Es non può superare certi limiti, poiché esigendo di più si produce nell’individuo la rivolta o la nevrosi o lo si rende infelice.
Il comandamento “ama il prossimo tuo come te stesso” è la più forte difesa contro l’aggressività umana, ma è irrealizzabile.
La società ci ammonisce che quanto più difficile è il conformarsi al precetto tanto più meritoria è l’obbedienza, eppure chi, nella presente civiltà, si attiene a tale precetto si mette solo in svantaggio rispetto a chi non se ne cura.
Un’altra critica che Freud rivolge alla società è che un reale mutamento nei rapporti dell’uomo con la proprietà gioverà più di qualsiasi comandamento etico.
Freud termina il suo testo sul Disagio nella civiltà con una considerazione sul destino della specie umana: egli si domanda se e fino a che punto l’evoluzione civile riuscirà a padroneggiare i turbamenti della vita collettiva provocati dalla pulsione aggressiva e autodistruttrice degli uomini. L’accento sulla pulsione autodistruttrice è rimarcato dall’accenno allo sviluppo dell’atomica e alla possibilità per gli uomini di sterminarsi facilmente a vicenda fino all’ultimo.
Aggiungo due considerazioni personali:
- 1) sembra di poter cogliere che, se il Super-io sadico rende masochista l’Io con il conseguente bisogno di punizione inconscio nel singolo individuo, nella dimensione collettiva della civiltà l’impossibilità di ottenere il soddisfacimento pulsionale a causa della rinuncia, spinga l’aggressività della specie verso l’autodistruzione;
2) l’intero processo soggettivo che porta dalla spinta erotica al bisogno di punizione è completamente inconscio e determinato dal Super-Io: questo mette fuori gioco tutti gli approcci clinici che si limitano al trattamento dell
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